mercoledì 28 dicembre 2022

Manzoni: l'impegno c'è ma non si vede




Insondabili congiunture internettiane hanno rimesso in circolazione l'argomento con cui Umberto Galimberti auspicava, due anni fa, la scomparsa dei Promessi Sposi dalla nostra scuola: un'opera che, facendo della Provvidenza l'artefice della storia, manda ai giovani un messaggio di disimpegno. Da quanto si desume dalle immagini, l'esternazione viene fatta proprio davanti ad un uditorio di giovani, che reagisce con un divertito mormorio.

Questo, dei Promessi Sposi come romanzo della Provvidenza divina, è uno dei più triti luoghi comuni che periodicamente dalle aule scolastiche passa sui media. Perché nel romanzo – a leggerlo bene – la Provvidenza è tanto presente nelle parole, quanto assente (o equivoca) nei fatti.

Prendiamo uno dei casi più famosi: il vecchio servitore in casa di Don Rodrigo, che per scrupolo di coscienza, informa Padre Cristoforo delle losche mene del suo padrone (P.S., cap. VI ).
 Dopo il burrascoso colloquio con il prepotente e l'incontro col servitore, così il frate rincuora i suoi protetti, Nondimeno, confidenza in Dio! … lascia fare a Lui, Renzo; e sappi… sappiate tutti ch'io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora non posso dire di più (P.S., cap. VII). 
Nella realtà dei fatti quel filo si perde e la scelleratezza fallisce non perché una mano invisibile la fa fallire; ma perché il Caso vuole che due progetti umani (il rapimento di Lucia e il matrimonio a sorpresa) “si imbroglino” nel tempo: dimodoché mentre i bravi tentano di sorprendere Lucia in casa sua, la medesima è, a sua volta, impegnata a sorprendere Don Abbondio in casa propria. Quando, di ritorno a casa (con un palmo di naso), la comitiva dei buoni incontra Menico (l'inviato della Provvidenza), i giochi sono già belli che fatti, visto che gli sgherri, sentite le campane (che non suonano per loro), stanno prestamente tornando (con un palmo di naso) alla loro tana.

E adesso chiediamoci: che sarebbe successo senza Menico? Possiamo immaginarlo: i nostri umili eroi sarebbero rientrati in casa (senza pericolo alcuno di brutti inciampi, visto che i bravi ne uscivano in direzione opposta); avrebbero realizzato che era l'unica del paese ad essere stata manomessa e ne avrebbero tratto la sola logica inferenza possibile: volevano prendere Lucia, che per pura combinazione (miracolo?) è salva. A questo punto, il buon Padre Cristoforo, non appena informato, avrebbe subito dato, pari pari, lo stesso ordine impartito a mezzo Menico; far subito scomparire la minacciata. Ruolo della Provvidenza? Praticamente zero. A meno che a qualcuno non venga voglia di obiettare che, senza diretto avviso, i nostri contadini sarebbero rimasti nel dubbio di un furto. La saggezza probabilistica dei villani di Lombardia, non doveva essere, nell'ottocento, inferiore alla nostra.

Vediamo un'altra famosa prova di Provvidenza all'opera: la pessima fine di Don Rodrigo e del Griso; spacciati dalla Peste. Sfortunatamente, però, muoiono di peste anche l'ottimo padre Cristoforo e l'innocente Cecilia, la bambina che mani pietose di madre depongono sul carro dei monatti. Nei fatti, la Peste del Manzoni colpisce a casaccio: è spietatamente a-finalistica.

Ma il Provvidenzialista non demorde e, a questo punto, tira fuori il suo asso dalla manica: la conversione dell'Innominato e la seguente salvezza di Lucia. Chi, se non Dio, ha toccato il cuore del malvagio? C'è però un dettaglio: a Manzoni servono la bellezza di circa 20 pagine di romanzo per descrivere quella crisi; e il lavorio su spinte, controspinte e gradazioni nella psicologia del personaggio, è talmente preciso, penetrante, positivista, da lasciare nel sospetto che il noto furfante al cubo la conversione se la possa anche essere faticata da solo (P.S., capp. XX-XXI). Succede, qui, qualcosa di analogo a quanto accade con i discorsi di certi biologi impegnati a conciliare evoluzionismo ed esistenza di Dio: il collo della giraffa africana o il becco di un fringuello sudamericano? Stavano da sempre nella mente di Dio. Si capisce. Ma, per arrivarci, l'Onnipotente ha lasciato che agissero cause puramente naturali (la selezione); poteva mica occuparsi di ogni minimo dettaglio.

Cancellare i Promessi Sposi dalle scuole? La penso esattamente all'incontrario: quel libro ha meriti educativi indubbi; e sono meriti laici. E se – per dirne un'altra – frugo nella mia memoria, non trovo una esperienza formativa più capace di far provare ripugnanza verso i mascalzoni, delle pagine in cui si descrive l'impasto di frustrazione e prepotenza di cui è fatto Don Rodrigo. Togliere i Promessi Sposi dalle mani degli adolescenti? Sbagliatissimo. Che lo leggano; tutto e bene (c'è pure tanto italiano e tanta buona logica da imparare). Magari passando, dopo, a Kerouac.



Gigi Monello























martedì 21 giugno 2022

Ricordi dall'Antiscuola. Autobiografia di un Prof.



Per parlarvi del nuovo libro sulla scuola (il terzo) di Paolo Mazzocchini, comincerò dalle maniglie; meglio, dall'uso moderno delle maniglie affermatosi nei fabbricati scolastici italiani. Il dettaglio non poteva sfuggirmi: sono un esperto del ramo. Nessun simbolismo; qui si parla di maniglie fisiche; quelle per aprire. Il prof. Mazzocchini è in classe, momento speciale, ultimo giorno di scuola, ultimo per davvero, si va in pensione, addio alle armi. Sta – con un certo qual indefinibile turbamento – facendo lezione, tentando, cioè, per l'ennesima e ultima volta la magia nera del trasportare gli smartphonati nell'Iperuranio, quando, senza antefatto acustico alcuno, ecco materializzarsi Lei, la bidella, con in mano il mattinale, i consigli per gli acquisti: Vuole per caso, qualcuno dei virgulti, aderire al progetto Studente-Atleta modello? (“Tutto svanì di colpo, compresa la mia presunta nostalgia per il mestiere che stavo, di lì a qualche minuto, per lasciare per sempre. Ecco: può sembrare che esageri, ma in un episodio del genere, così apparentemente banale, è compreso tutto il senso del mio odi et amo verso la scuola”; p.129). L'ho detto: sono uno specialista in materia; l'ho visto fare le mille volte; parlo delle maniglie disinvoltamente abbassate; l'ho visto fare da tutti: bidelli, vice-presidi, colleghi, raramente alunni; non l'ho mai digerito. I primi a stupirsi, poi, erano proprio loro, gli utenti. Ho reagito subito, a muso duro; ho rimandato a dopo il chiarimento (esternando però l'intenzione di farlo); ho elaborato strategie ironiche per castigare a caldo, senza sbottare. Mi sono logorato il fegato. Non l'ho mai accettato. Villania a parte, il danno è doppio: tensione comunicativa rotta e pressoché irrecuperabile (“Interrompere una lezione significa disperdere la concentrazione e spezzare la tensione. Violentare un'emozione. Solo un insegnante vero sa quanto è delicato questo equilibrio psicologico e ambientale”; p.129); tempo buttato: ho visto entrarmi in aula – magari rispettosamente – bidelli/e recanti in dono nientedimeno che 8 pagine fitte fitte più modulistica, concernenti questo o quel progetto. Demenzialità pura.

Tempo buttato, appunto; centralissima questione; e le maniglie abbassate sono solo piccola parte di più vasto apparato. Difficile, per chi non c'è stato dentro, capire quale paurosa erosione di tempo produca, a spese della didattica, ciò che Mazzocchini chiama l'“Antiscuola” (“un mostro dalle cento teste...un pullulare inarrestabile di infiorescenze parassite”, p. 77). Nell'emporio non manca nulla: gite, concerti, cinema, giornate promozionali, conferenze, visite guidate, open day, “olimpiadi”, orientamenti “in uscita”, assemblee, alternanze, progetti.

Quando il nostro Professore vi entra, nei primi anni '80, la Scuola, nell' insieme, mostra ancora di reggere (“per tutti gli anni Ottanta fino ai primi anni Novanta…vissi il periodo tutto sommato più felice della mia carriera. La scuola non era più quella sopravvissuta sino al '68… ma nemmeno ancora quel giardino d'infanzia iper-protetto che sarebbe di lì a poco diventata”, p. 29). Il primo smottamento nel 1995, con l'abolizione degli esami di riparazione; da quel momento la macchina della perversione comincia a lavorare sodo e a trasformargli la vita in resistenza. Mazzocchini si racconta senza veli: la famiglia operaia, gli studi in provincia, l'incrocio fatale, al ginnasio, con un fuoriclasse della didattica; il tentativo di carriera universitaria (lettere classiche), l'amara disillusione, il fallimento senza demerito; quindi l'ingresso in un Liceo; il suo Liceo (amato ed odiato); e il progressivo confrontarsi con l'Antiscuola.

La “bestia malefica” lavora su più fronti: rapina tempo; sfianca a mezzo extra cartaceo-burocratici; impone modernismi modaioli. Fra gli altri, quello della interdisciplinarità prêt-à-porter, che celebra i suoi fasti con le cosiddette tesine d'esame. Immancabile, arriva vissuto e bozzetto: un anno imprecisato, a circa due terzi della carriera, il nostro memorialista si trova commissario esterno presso il liceo di una cittadina della sua regione. Siamo entrati nell'epoca delle Commissioni miste: 3 interni, 3 esterni più presidente esterno. Scatta la consueta operazione euristico-imbonitoria (troppe ne vedemmo): comfort, paraculismus and investigations; fioccano rifocillamenti (bibite, pizzette e pasticcini), sorrisi, cortesie, buonumore (untuosetto) e spirito collaborativo; il tutto interrotto da qualche lampo di sospettosità congiunto a domandina esplorativa (i primi giorni - prima delle magagne - è sempre così). Tranne il nostro trasfertista, tutti i Commissari sono donne. Tra le interne spiccano per attitudine alla maternità-chioccia, la superingioiellata di Latino e la boccolata di Inglese (“una matrona imponente sulla sessantina, capigliatura bionda a boccoli grandi e occhiali dorati con montatura vistosa e raffinata”); quest'ultima, in particolare, appare la più impegnata a magnificare le qualità dei candidati; nonché la più intrigante. Il commissario abbozza e inizia ad avere sentore di guasto. Cosa che trova conferma nella correzione delle prove di latino, dove la maggioranza ha preso la cantonata (“tre quarti della classe toppò…la versione di Seneca...Una disfatta. La bolla era scoppiata. Il settanta per cento di quelle prove non raggiungeva la sufficienza”, p. 110). Si sparge il panico. Si corre ai ripari. Mentre calano bibite e pizzette, salgono sino all'inverosimile, e quasi per tutti, i voti nelle terze prove di inglese. Il clima si fa più freddo (un classico). Si arriva alla vigilia degli orali: il flusso di bibite e pizzette ritorna normale; e compare anche una fagottata colorata: sono le tesine, tutte allestite secondo l'aureo canone della interdisciplinarità (“fascicoletti multicolori rilegati per lo più con grossi anelli, e con copertine vistose dai titoli sgargianti: Amore e morte, Astrologia e astronomia, Rivoluzione e rivoluzioni”, p. 113.). Ogni docente pesca qualcosa dal mucchio: il prof di latino nota un titolo che allude a un presunto mistero della sepoltura di un noto personaggio storico: è tutta in inglese, tranne una breve sintesi iniziale; la prende, la legge; impeccabile; troppo; bastano un paio di frasi su Google ed ecco l'originale: è un lavoro pubblicato in un sito accademico di saggistica internazionale. Il Commissario stampa il pdf, mette in borsa e studiatamente rinvia. Iniziano gli orali e viene il turno dell'autrice di The Quest, che la docente di inglese non si è peritata di definire “studentessa originalissima e culturalmente curiosa come poche altre maturande”; tradotto: naturalmente predestinata al 100. Gli orali riescono scolasticamente dignitosi, ma della annunciata originalità, nessuna traccia. Si passa alla valutazione: il destino della candidata (per inciso, figlia di una docente della scuola e di noto esponente politico locale) pare stia per compiersi, quando il guastafeste mette mano alla borsa e ne cava lo stampato. Gelo in sala: la boccolata sbianca, gli altri ammutoliscono, la Presidente riconosce che, di fronte all'evidenza del plagio, assegnare il massimo è impossibile; si conviene per un voto più basso. L'originalissima rimarrà sotto il 100.

Frodi a parte, qui come altrove (p. 54), l'autore ci esterna tutto il suo cordiale disgusto per tesine e verbo della Interdisciplinarità. Cosa che potrebbe farlo apparire seguace di un chiuso disciplinarismo. Non credo sia così. Ci sono almeno tre punti di questo sugoso libretto che “dicono” il contrario; e tre parole-chiave: “contagio” (p. 22), “avventure” (p. 23), “detective” (p. 24). Qualunque disciplina, anche quelle scientifiche – soprattutto se chi le insegna ne conosce la storia – può far scoccare un contagio avventuroso, consistente proprio nello scoprirne la complessità, cioè tutti gli infiniti, potenziali intrecci con tutte le altre. C'è una interdisciplinarità prêt-à-porter; e una lenta e profonda (“un insegnante che abbia la stoffa del ricercatore ti trasmette inevitabilmente il prezioso strumento del metodo a prescindere e al di là della materia che insegna”, p. 24). È qui la scuola vera: un adulto/detective meravigliato del mondo, che comunichi meraviglia per il mondo; un contatto che può salvare dalla volgarità di una vita senza mistero (che è la migliore anticamera della sordità morale).

Altri felici schizzi nelle pagine di questi Ricordi dall'Antiscuola: dal Dirigente commercialista che definisce i docenti “mediatori promozionali” (p. 91), ai docenti psico-socio, maledettamente impegnati a piacere sul piano umano (p. 30); al vacuo rimbombo di sigle e formule, che paiono comandi discendenti da un'invisibile Entità totalitaria (p. 73). Un libro antidoto-terapia-catarsi, leggero e denso, dove la più acida delle stroncature si stempera sempre nella grazia dell'ironia; lettura consigliata ad euforici principianti come a veterani sull'orlo di una crisi di nervi. Sconsigliatissimo agli incalliti adepti del buonoperchénuovo.




Paolo Mazzocchini, The Dark Side of the School,
Nulla Die, 2022, p.155, euro 15.






lunedì 23 maggio 2022

lunedì 7 marzo 2022

Priapo in salsa russa


 

L'energetico infoiato belluino cerca l'avventura qualunque capace di elevarlo. Lo scopo è “arrivare”. Il gioco riesce quando la congiuntura offra le frustrazioni di una massa grigia di cui, come nessun altro (è parto della stessa madre), sa indovinare le spinte. Non conosce Eros (produttore di vera relazione); a muoverlo è Priapo, ossia un erotismo centrato su se stesso: il pragma della banda e del capintesta è un pragma bassamente erotico, un basso prurito ossia una libido di possesso, di comando, di esibizione, di cibo, di femine, di vestiti, di denaro, di terre, di comodità e di ozî, (Gadda, Eros e Priapo).

Uomo di fatti e di mano, calcolatore, amorale, narciso interiormente roso, manipolatore, combatte l'ansia di sapersi “a scadenza” usando gli altri come cose onde plasmare la sua vita “opera d'arte”. All'impresa associa bravazzi, avventurieri, sbandati e profittatori di ogni risma. Nella facciata, “idealista” (patria, suolo, tribù, onore; ma - se del caso - rivoluzione, riscatto e liberazione di oppressi), nel suo irride e sprezza cultura (eccezion fatta per il Machiavello), argomenti, critica, analisi; mentre ammira forza, mascolinità e tecnica.

Con l'andar del tempo, tutto riuscendogli a puntino (“dove tocca suona”), l'uomo – a suo modo sensibile a mistico ed arcaico – si convince di un Destino, di un' Onto-storia che a mezzo lui manovri, di una scrittura nelle stelle: Le masse debbono rassegnarsi a sottomettersi (...). Ma questo desiderio masochistico è riscontrabile anche nello stesso Hitler. Il potere superiore, a cui egli si sottomette, è Dio, il Destino, la Necessità, la Storia, la Natura. In realtà tutti questi termini hanno pressapoco lo stesso significato per lui: quello di simboli di un potere irresistibile (…) La sconfitta nella guerra del 1914-1918 è per lui «una meritata punizione da parte del giudizio eterno». Le nazioni che si mescolano con altre razze «peccano contro la volontà dell'eterna Provvidenza» (…) La missione della Germania è ordinata dal «Creatore dell'universo». «Il Cielo» è superiore agli individui, perché fortunatamente si può ingannare questi ultimi, ma «il cielo non può essere comperato» (Fromm, Fuga dalla libertà). Nelle latebre, a muovere i giochi resta sempre il basso pragma di cui sopra, che dignitosamente convive - normale andirivieni dello schizoide - con la superfetazione.

Del temerario bombardiere oggi su tutti i giornali, un vecchio compagno dei tempi impiegatizi, ha scritto che, di lui lo colpiva “il pragmatismo, il disincanto, la sua mente precisa, anaffettiva, quasi matematica”. Dejà vu: Sentivo confusamente che nessuna commozione del cuore poteva agire su di lui. Guarda una creatura umana come un fatto o come una cosa, ma non come un simile. Non odia più di quanto ami. Per lui non esiste che se stesso: il resto delle creature sono cifre. La forza della sua volontà consiste nell'imperturbabile calcolo del suo egoismo (Madame De Staёl, su Napoleone, in Considerazioni sulla Rivoluzione francese).

All'egolatra posseduto, tiradritto-tuttodunpezzo, ciò che non garba, a ben vedere, non è tanto la Nato a Kiev, ma “chiacchiere, vignette e discussioni” tra piazze, bar e redazioni. Finale probabile? Da furore a cenere (Gadda).

gigi monello

lunedì 7 febbraio 2022

Angoscia a Tribalismo


 Angoscia e Tribalismo

 di Gigi Monello


Nel suo chalet bavarese Hitler aveva voluto una grande vetrata direttamente affacciata sull’Untersberg, una roccia verticale di
1370 metri. Era lì che il Destino gli parlava; lì aveva i suoi momenti di chiaroveggenza e prendeva importanti decisioni. Per quella migliore, però, la vetrata non bastò; ci volle un supplemento di brivido. Il 24 agosto 1939 sopra la montagna apparve una aurora boreale che tinse di rosso il cielo. Alle tre del mattino è sulla terrazza col suo cameriere e alcuni ospiti, tra cui Albert Speer. Fissa lo spettacolo e dice, “Sembra un mare di sangue… è segno che questa volta bisognerà combattere”. Da quel cielo la storia parlava; l’inesorabile era alle porte; il 1° settembre la Whermacht entrò in Polonia.

Sul lato opposto della Germania, al confine con Svizzera e Francia, si stende la Foresta Nera, così chiamata dai romani non si sa bene se per foltezza o scurezza delle foglie; o per tutte e due le cose insieme. Se volete sentire il palpito profondo del suolo tedesco, affittate un camper e gettatevi, bambini al seguito, nella selva oscura; emozioni assicurate.

Nella Foresta Nera aveva casa Martin Heidegger, per molti uno dei più grandi pensatori del ‘900. Una baita solitaria, a Todtnauberg, vicino a Friburgo, con tanto di pozzo e lavatoio all’aperto. Anche qui il Destino parlava; ma su faccende più private. Nel 1927, con l’uscita di Essere e Tempo, Heidegger era diventato famoso in Germania, e un gran numero di studenti veniva a sentirlo a Marburgo. Il libro – titolo solenne e mole ponderosa – è la cosa giusta al momento giusto. Nell’impasto di un gergo ermetico mai udito, incrocia Völkisch (idee nazional-popolari) e Husserl, Sant’Agostino e Nietzsche, Kierkegaard (da poco tradotto in tedesco) e Spengler, Bergson e Dilthey. La miscela funziona, affascina, intercetta un’aria che tira, un’insofferenza diffusa: basta positivismi e scientismi: la filosofia è ben altra cosa. C’è una età della vita che ha bisogno di messaggi: scrive una giovanissima Hannah Arendt,

 (il nome di Heidegger) correva di bocca in bocca in tutta la Germania, come la fama di un re nascosto... Il pensiero ha ripreso a vivere, il patrimonio culturale del passato, che si credeva estinto, ha ripreso a parlarci, ad esprimere cose molto diverse da quelle che, con diffidenza, si supponeva ci dicesse. C’è uno che insegna, forse è possibile imparare a pensare.

Nel 1928 Heidegger torna a Friburgo, sul posto già tenuto da Husserl, e diventa ordinario. La fama cresce ancora, tanto che i vertici del Ministero di Weimar nel 1930 gli offrono una cattedra a Berlino; la lusinga è forte: il figlio del sacrestano di Messkirch, professore nella stessa Università di Hegel! Sorprendendo tutti, rifiuta. L’anno successivo l’offerta viene, però, rinnovata. Il dubbio diviene tempesta. Che fare? Dove consultarsi? La cosa migliore è interrogare le montagne. Mute solo in apparenza, stanno là, maschie ed eterne: loro non inganneranno. Così lui stesso scrive di quel momento,

Da poco mi è stata offerta una cattedra a Berlino per la seconda volta. In una tale circostanza lascio la città e mi ritiro nella baita. Ascolto ciò che dicono le montagne, i boschi e le fattorie. Nel frattempo arrivo dal mio vecchio amico, un contadino settantacinquenne. Nel giornale ha letto che sono stato chiamato a Berlino. Cosa ne dirà? Egli poggia lentamente lo sguardo sicuro dei suoi chiari occhi sui miei, tiene la bocca rigidamente chiusa, poggia la sua mano fedele e prudente sulla mia spalla e scuote il capo in modo appena percettibile. Questo significa: inflessibilmente no!

Restare a Friburgo. Orografia e paesaggio non transigono; e di rincalzo c’è un settantacinquenne del posto. Restare! E fu Friburgo per sempre. Il seguito della storia è noto: nel 1933, tra crisi spirituali, fermenti artistici, miseria materiale e pallottole per la strada, Weimar collassa e una banda di avventurieri prende in mano il destino della Germania. Riuscito il colpo, c’è urgente bisogno di rispettabilità, di far cioè dimenticare il puzzo di falliti da birreria che in molti si portano addosso. Ben vengano, dunque, magnati, borghesi e gran dottori. A lui offrono il Rettorato a Friburgo. E questa volta accetta, prende la tessera del Partito, si impegna immaginandosi un futuro come Guida della cultura tedesca. Sente che è il suo momento: stila programmi, fa discorsi, immagina riforme ab imis; si accende di entusiasmo: al collega ed amico Jaspers, che non sa capacitarsi della sua scelta e che sconfortato gli dice, “Ma come puoi credere che un ignorante come Hitler possa governare la Germania?”, dà questa stupefacente risposta, “Ma qui la cultura non interessa… non hai visto le sue splendide mani?” Un ex-caporale, fallito architetto alla ricerca di una carriera per sé, si è inventato un destino per tutti; e il filosofo lo segue stregato.
L’uomo è però spigoloso e presto comincia a provare fastidio per il nazismo reale: troppi compromessi, interessi spiccioli, mediocrità, opportunismi; trova una voglia di azione primitiva, poca cultura; si sente più in sintonia con l’ala pura, quella di Röhm e delle SA, fazione destinata a tragico fallimento. Dopo un anno lascia l’incarico, ma resta nazionalsocialista; e oggi , esplorati e commentati sino allo sfinimento i suoi Quaderni neri, sappiamo che restò tale sino alla fine: nazista, antisemita, razzista.
Ineludibile, sorge la domanda: basta, questo, a rimpicciolirlo come filosofo? Ha scritto Max Vincent,

 (...) possiamo affermare fin d’ora che un pensiero che si è identificato in gran parte in ciò che di peggio è avvenuto nel XX secolo non può in alcun modo avere la grandezza che l’acclamazione e il sostegno degli heideggeriani continuano a tributargli.

Verrebbe voglia di sottoscrivere subito, se, istintivamente, non ci si affacciasse alla mente una banale associazione: forse che Maradona come calciatore, Caravaggio come pittore e Chuck Berry come musicista, vengono rimpiccioliti dai ben noti, loro scivolamenti nel delinquenziale? O la filosofia è cosa a parte e ha obblighi più stretti verso l’Etica? Interessante quesito. Accantoniamolo e spostiamoci sull’uomo; chi era Heidegger come uomo? Sentiamo chi lo vide da vicino:

 (...) un uomo di poca apparenza, il quale sembrava più un elettricista venuto a controllare l’impianto che un filosofo.

 (Paul Hühnerfeld)

 (...) entrò nella sala, intimidito come un piccolo contadino giunto alla porta del castello (...) Ciò che appariva più inquietante, era la sua serietà mortale e la sua totale mancanza di humour.

(Toni Cassirer)

 L’elemento di fascino che emanava da lui era in parte dovuto all’impenetrabilità della sua natura. Nessuno lo conosceva bene, e la sua persona è stata oggetto per anni di aspre controversie quanto le sue lezioni. Come Fichte, anch’egli era per metà un uomo di scienza; per l’altra metà, forse la maggiore, aveva la natura dell’oppositore e del predicatore, che sapeva affascinare per quel suo mettersi in urto col mondo, spinto dall’indignazione verso il proprio tempo e verso se stesso.

 (Karl Löwith)

 Dopo aver sentito le sue lezioni, mi sento pronto a tutto; ma non so a che cosa.

(anonimo studente a Marburgo, nei ricordi di Löwith)

 Sinchè può, mente.

(Hannah Arendt)

Ed ecco ora, in ordine volutamente sparso, un varietà di vissuti noti e meno noti: 1) Friburgo, 1933, durante la presentazione delle matricole, non stringe la mano ad una Mendelssohn, studentessa ebrea; 2) Brema 1949, durante una conferenza afferma che Auschwitz e cose affini, altro non sono stati, in fondo, che il naturale adeguarsi alle moderne modalità industriali della antica prassi dell’omicidio di massa; 3) 1933, da Rettore a Friburgo, con una velenosa relazione-denuncia cerca di stroncare la carriera di un suo ex-allievo, E. Baumgarten, divenuto professore a Gottinga; 4) durante il seminario dell’anno accademico ‘33-‘34, parlando di negri, come ad esempio i Bantu, smette di usare la parola “popolo” e passa all’espressione “gruppi di uomini che non hanno storia”, al pari di “scimmie ed uccelli”; 5) 1933, chiede al Ministero della Cultura il licenziamento del chimico Hermann Staudinger, segnalato dalla Gestapo come elemento politicamente inaffidabile; 6) 25 novembre 1933, durante la cerimonia di immatricolazione rivolge ai presenti un fervido appello a tenere un comportamento esemplare verso tutti i Volksgenosse (compagni di razza); nello stesso mese dispone la soppressione delle borse di studio per studenti marxisti o ebrei; 7) 1929, lettera a Viktor Schwoerer, Direttore delle Università del Baden: siamo ad un bivio: o agire perché la formazione spirituale tedesca torni nelle mani di educatori autentici provenienti dal territorio o cedere alla crescente giudaizzazione; 8) maggio 1934, ad un mese dalle dimissioni da Rettore, entra a far parte, insieme a Streicher e Rosenberg, dell’Accademia per il diritto tedesco, ente che collabora alla stesura delle Leggi di Norimberga del 1935; 9) 1976, in una intervista allo Spiegel dichiara una sorta di orrore per le foto della terra scattate dalla luna; l’impresa americana è solo il segno di quanto grave sia lo sradicamento causato dalla tecnica; 10) 2014, Quaderni Neri, chiarisce, come già sostenuto in passato, che l’Olocausto altro non fu che un atto di autoannientamentocioè l’effetto finale del dominio tecnico sull’Essere, che, messo in moto dagli Ebrei, popolo calcolante per eccellenza, ha finito per ritorcerglisi contro; 11) Ibidem: la mancata traduzione in inglese della sue opere è prova della mediocrità di quel popolo e della sua costituzionale incapacità metafisica; 12) Ibidem, L’attacco italiano alla Grecia è frutto di risentimento e ultimo segno di quel complesso di inferiorità provato dai Romani al cospetto dei modelli greci. 

Tutto vero e tutto assai sgradevole; e, nel caso delle due ultime affermazioni, non privo di qualche venatura paranoide. Si può dunque dar ragione a Rorty quando scrive che, come essere umano, Heidegger era un esemplare alquanto scadenteMa la domanda resta sempre la stessa: tutto ciò rimpicciolisce la sua filosofia? Nulla da fare. Si sente che non sta qui il problema; che occorre spostare da un’altra parte lo sguardo. Torniamo indietro, agli esordi della sua entrata in società: la scuola gli ha dato la misura del suo valore, ha una tenace volontà di riuscire ed è alla ricerca di un ascensore sociale. Entra in Seminario e prova a diventare Gesuita ma, dopo pochi mesi, viene congedato per mai definiti motivi di salute; immaginabile la frustrazione; cominciano anni di incertezza: si iscrive prima in Teologia, poi in Matematica, infine a Filosofia. È la sua strada: studi intensi, ferrea disciplina; nel 1913 si addottora con una tesi su La dottrina del giudizio nello psicologismo. Il suo sogno, adesso, è la cattedra universitaria. Lasloswky, un amico che gli fornisce anche sostegno finanziario, gli dà questo consiglio, Sarebbe bene che tu ti avvolgessi dentro una misteriosa oscurità, per incuriosire la gente. Aggiungendo che poco gli avrebbe giovato seguitare a mostrarsi troppo legato al Cristianesimo tradizionale. Insegnamenti che saranno valorizzati. Nel 1916, a Friburgo, diventa assistente di Husserl. La fenomenologia lo folgora, è la rivoluzione che attendeva. Nel ‘19, finita la guerra, tiene sul tema un appassionato corso. Per la Germania son tempi fluidi: il mondo di Weimar è un ribollente calderone di contraddizioni, risentimenti, angosce, estetismi, trasgressioni, illusioni; sul gran mercato delle rivoluzioni anti-borghesi (cioè anti Weimar) c’è di tutto: dall’appello al folklore di Völkisch e Jüngeriani ai disincanti anarco-libertari degli atei Berlinesi; dal marxismo rivoluzionario al cattolicesimo progressista. Per sfondare occorre un prodotto interamente nuovo: un ibrido geniale, un capolavoro di tempismo, un viaggio nelle strutture della coscienza che ogni tanto viri verso il richiamo della foresta; il tutto legato in un linguaggio di una misteriosa oscurità. Novità, profondità, fascino, adattabilità alle circostanze. Sta qui la magagna: nel capolavoro del 1927 circola una doppiezza di fondo, un certo qual sentore di teoretico imbroglio, insomma l’antica malattia usa, spesso, infettare i discorsi sulla verità: la sofistica, l’adulazione del pubblico, la sirena retorica; il teorizzare come tecnica vitale al servizio di un progetto personale (alias carriera). Prendete la celebre nozione di autenticità; a seconda dei passi che si leggono, assume a volte un tono pascalianoaltre uno völkish: una volta trovi l’angoscia individuale che libera dallo stordimento del divertissement medio e trascina di fronte alla equivalenza dei progetti, alla lucidità e al coraggio della finitudine; altre, il ritorno nel grembo, allo strato profondo della comunità, il radicamento nel suolo, la nazione, il sangue, l’appartenenza, il Destino.
A volte il mondo appare
senza storia e senza politica: in qualunque epoca si ha la ventura di vivere, il dramma è sempre e solo tuo, non c’è processo, epoche, passaggi; solo singoli, gettati in un luogo e in un tempo, nella libertà assoluta, eroi o travet, star del cinema o barboni; antichi e moderni; tutti con un unico e medesimo problema, sempre lo stesso: l’affacciarsi sul Nulla e il guardarlo; è l’Heidegger, potremmo dire, di Sartre e degli esistenzialisti parigini. L’Heidegger della purezza trascendentale, dell’autenticità vuota,

Il per-che l’angoscia è tale non è un determinato modo di essere o una possibilità dell’Esserci. La minaccia è sempre indeterminata (...) il per-che l’angoscia è angoscia è l’essere nel mondo come tale. Nell’angoscia l’utilizzabile intramondano e l’ente intramondano in generale sprofondano. Il mondo non può più offrire nulla, e lo stesso il con-esserci degli altri. L’angoscia sottrae all’Esserci la possibilità di comprendersi deiettivamente a partire dal mondo e dallo stato interpretativo pubblico (...) Assieme al per-che dell’angosciarsi, l’angoscia apre l’Esserci come esser-possibile, e precisamente come tale che solo a partire da se stesso può essere ciò che è: cioè come isolato e nell’isolamento. L’angoscia rivela nell’Esserci (...) l’esser-libero-per... (propensio in...) l’autenticità del suo essere in quanto possibilità (...)

Altre volte, invece, la storia c’è; e c’è la politica: e i tedeschi sono eredi dei Greci della prima ora; ed ecco, dopo gli sviamenti del moderno - materialista, illuminista, plebeo e livellatore -, ecco intravedersi all’orizzonte la nuova alba: la tribù tedesca che si sveglia, si afferma, cresce, domina, riportando in vita i valori dello Spirito: il linguaggio lega il tutto in caldo amalgama: uomini, montagne, canti, cannoni, alberi, strudel e birra.

Se l’esserci, anticipando la morte, la erige a padrona di sé, allora, libero per essa, si comprende nella ultrapotenza della sua libertà finita e (...) può assumere su di sé l’impotenza dell’abbandono (...) Ma poiché l’Esserci, carico di destino per il fatto di essere-nel-mondo, esiste sempre e per essenza come con-essere con gli altri, il suo storicizzarsi è un con- storicizzarsi che si costituisce come destino-comune. Con questo termine intendiamo lo storicizzarsi della comunità, del popolo. Il destino-comune non è la somma dei singoli destini (...) Nell’essere assieme in un medesimo mondo e nella decisione per determinate possibilità, i destini sono anticipatamente segnati. Solo nella comunicazione e nella lotta, la forza del destino-comune si rende libera. Il destino che l’Esserci ha in comune con la sua generazione, esprime lo storicizzarsi pieno e autentico dell’Esserci.

 È l’Heidegger di Jüngeriani e Spengleriani e Völkisch-vitalisti in genere: l’occidente tramonta, ma – niente paura – l’ultima parola sarà dei biondi con gli occhi chiari; c’è un Destino, che si rivela nel pensiero poetante a pochi, e nel folklore a tutti. Questa autenticità piena e sporca di storia, risuona distintamente in alcuni altri passaggi che potremmo rubricare, all’incirca, come “mistica dell’ombra rurale”, “inconscio pre-copernicano” e “allergia al dispositivo meccanico”:

In qualche modo anche l’Esserci ‘primitivo’ si sottrae alla necessità di una lettura diretta del tempo nel cielo, allorquando anziché osservare la posizione del sole nel cielo, misura le ombre proiettate da un oggetto costantemente disponibile. Ciò può avvenire in forma semplicissima con gli antichi ‘orologi di campagna’. Ogni uomo è accompagnato costantemente dalla propria ombra, che varia col mutare di posizione del sole. La variazione delle lunghezze delle ombre durante il giorno può essere facilmente misurata ad ogni momento per mezzo del piede. Anche se la lunghezza del corpo e del piede muta secondo gli individui, il loro rapporto, entro certi limiti, è costante. La determinazione pubblica del tempo nell’ambito del prendere cura assume allora, ad esempio, questa forma: ‘Quando le ombre saranno lunghe tanti piedi, ci incontreremo in quel determinato posto’. In questo caso l’essere-assieme (...) presuppone in esplicitamente l’uguaglianza di latitudine del ‘luogo’ in cui avviene la misurazione delle ombre.

Uguaglianza di latitudine: inesplicito modo di alludere ad una Nazione che si prende cura di sé; e ad uno stesso cielo dove il tempo è fidatamente scandito da sempre,

L’avere cura fa uso della ‘presenza’ del sole che spande luce e calore. Il sole data il tempo interpretato nel prendersi cura. Da questa datazione trae origine la misura del tempo ‘più naturale’ di tutte, il giorno. Poiché la temporalità dell’Esserci che deve prendersi il suo tempo è finita, anche i suoi giorni sono già contati. Il ‘mentre è giorno’ offre all’aspettarsi prendente cura la possibilità di determinare i ‘poi’ di ciò di cui ha da prendersi cura, cioè di suddividere il giorno. Ma la suddivisione si compie, di nuovo, in base a ciò che data il tempo: il sole nel suo corso. Il sorgere, il tramonto e il mezzogiorno sono ‘posti’ particolari che l’astro via via occupa. L’Esserci, gettato nel mondo e temporalizzantesi dandosi-tempo, tiene conto del corso del sole che si ripete regolarmente. Lo storicizzarsi dell’Esserci è ‘giornaliero’(...).

A proposito del “giornaliero”, verrebbe voglia di chiosare che, al pari dello storicizzarsi dell’Esserci, anche l’atteggiarsi del filosofo, può esserlo. E adesso, per l’ultima volta, la stessa, identica domanda: toglie, questa doppiezza, grandezza alla filosofia di Heidegger? La rimpicciolisce? Beh, questo sì. Perché o c’è l’angoscia e allora è impossibile la Tribù; o c’è la Tribù, e allora dilegua l’angoscia. Le due cose insieme non stanno. Tornando al calcio, sarebbe come se Maradona, dopo venti minuti di palleggio stretto e dribbling offensivo, per altri venti si desse a interdizione a centrocampo e passaggi lunghi per lanciare il contropiede. La domanda sorgerebbe spontanea: ma a che gioco giochiamo o divo Maradona? Con che gioco si vince nel football?

Ha detto una volta Sartre, del Rettore di Friburgo, “Heidegger non ha carattere”. Ed aveva, in un senso profondo che va aldilà delle parole, pienamente ragione: avendone sempre avuti due, non poteva averne alcuno

venerdì 21 gennaio 2022

Lacrimevole fine di un peto in mano cortigiana

 


Casa Bianca, metà Giugno 2009, Berlusconi a Washington, conferenza stampa finale. Obama illustra l’esito delle conversazioni, atmosfera distesa, cordiale, brillante. All’improvviso un poderoso peto squarcia l’aria. Tutti si girano di scatto verso Mr. Berlusconi. Non c’è ombra di dubbio: è stato lui. Il primo ministro italiano sorride accattivante. Fa finta di nulla.
Stupore assoluto! L’ha fatto apposta?! Gli è scappato?!
Mistero.
Attimi di gelo. Obama riprende, conclude e passa la parola all’ospite.
Frizzi, lazzi, sorrisi, battute, ammiccamenti; il premier italiano è un fiume in piena.
Chiude con un enigmatico, “…e non si muove foglia che Obama non voglia!”. Giornalisti e diplomatici si guardano attoniti.
Parte un applauso di circostanza. Obama sorride affabile.
Brusio, mormorii, ilarità repressa. Qualcuno si gira verso cameramen e fonici: sarà stato registrato?
Strette di mano, ok alle telecamere, sorrisi, abbraccio finale, “Goodbye Mr President!”. “Goodbye Mr.Berlusconi!”.

Roma, Palazzo Chigi, urla disperate al cellulare, è Gianni Letta: “Ma cosa ha fattoooo! Alla Casa Bianca! In faccia al mondo! Dio Dio Dio Dio! …Non è possiiiibile!”. Arriva Bondi: viene convocata l’unità di crisi; scatta l’allarme rosso. Iperemici e congesti arrivano Cicchitto, Quagliariello e Capezzone.
Intanto a Palazzo Grazioli, Bonaiuti e Vito si affannano attorno all’altarino su cui troneggia l’effigie di don Baget-Bozzo in ray-ban e maglietta rosa shocking da vecchio flaneur. Accese sei candele e fatta un’orazione, accorrono anch’essi al luogo del raduno.
Arrivano Ghedini, Brambilla e Tremonti. Il trust di cervelli si mette al lavoro. Si intrecciano torniti e sottili argomenti. Ben presto, intorno al peto, si delineano due agguerrite scuole di pensiero, quella della “involontarietà” (Ghedini-Tremonti) e quella della “volontarietà” (Cicchitto-Capezzone). La disputa è lunga e complessa, ricca di sostanza logica come di dialettico orpello.
Gli Involontaristi premono perché sia il lato “materiale” ad essere privilegiato: scusabile incidente, surmenage del Presidente, passeggere difficoltà enteriche, pneumatismi, caldo, dieta sbagliata, piccolo abuso di pasta e fagioli in quel di Napoli, disagio climatico, scompenso da fuso, stress da viaggio; ma, soprattutto, i ritmi infernali di un uomo che nulla si risparmia quando è in gioco il bene del paese.

I Volontaristi insorgono: linea sbagliatissima! Assurda! Si incrina l’immagine del premier vitale, vincente, instancabile, ancora pienamente padrone del suo corpo. No! Si dia mano all’audacia! Si giuri e si spergiuri che il peto è stato assolutamente intenzionale.
Ennesima manifestazione della contagiosa spontaneità del leader, del suo spirito gioiosamente antiprotocollare, del suo saper essere vicino alla gente; la prova provata che il Presidente è “un uomo che ama la vita”; in tutti i suoi aspetti, anche quelli più intimi e più sanamente plebei.
Il peto è pura gioia di vivere partecipata agli altri; senza formalismi. “Si citi senz’altro” – sibila ispirato Bondi – “il celeberrimo, terenziano, Homo sum, humani nihil a me alienum puto ”.

Fervono le discussioni, gli animi si riscaldano. Passa il tempo, l’accordo non si trova. Finché, risolutiva, ecco la genialata di Quagliariello.
C’è una terza formula per risolvere l’impiccio: l’inesistenza.
Né volontario, né involontario; il peto, semplicemente, non è mai esistito.
I visi si illuminano. Tremonti plaude; Letta fa misurati cenni di assenso; Bondi si scioglie in lacrime. Com’è che non ci si è pensato prima?!
Il genio sagace del professor sottile riporta tutti al cospetto della verità: quanto può durare nella memoria teleidioVisiva degli Italiani, l’ideuzza sgangherata di un peto?!
Poche ore al massimo! Dunque, spegnere la notizia in Tv, moltiplicare i servizi su abbronzatura, creme protettive e ansia pre-balneare da sovrappeso; mostrare qualche retata di camorristi in Campania, un po’ di militari in giro per le strade, e, soprattutto, martellare senza pietà su Kakà, Ronaldo e Ronaldinho.
Insomma, non parlarne.
E quanto alle eventuali registrazioni audio/video (quand’anche ci fossero); dov’è la prova assoluta che di “scorreggia” si sia trattato e non di altro?! Potrebbe ben essere stato il cigolio anomalo di una porta, un jet militare, la suola gommata della scarpa di una guardia del corpo, uno strano volatile di passaggio; al limite, un rumorista di Hollywood pagato dai Komunisti!
Ovazione generale! Gaetano, sublime intelletto!
Salvatore dell’ottimo capo!
La Brambilla gli stampa un bacio sulla fronte; altri lo acclamano, “Principe delle discussioni”.
Si chiama Vespa, si prenota una puntata di “Porta a Porta”; tema: “La scarpa italiana nel mondo”. L’imperativo – categorico e impegnativo per tutti – è dirottare, sviare, spostare; senza dimenticarsi, naturalmente, di confondere.
Si dirama una circolare urgente a tutte le sedi del PdL: per almeno due mesi, in discorsi ed incontri pubblici, evitare tassativamente la voce “ripeto”. Sostituire con “ribadisco”.


gigi monello