venerdì 25 novembre 2016

la situazione è grave, ma non è seria

Macché alternanza: serve una scuola vera, non un lavoro finto
 
di Corrado Bagnoli
– giovedì 22 ottobre 2015
 
E’ una deliziosa mattinata di maggio e come ogni mattina da settembre a giugno mi preparo a lottare contro il tempo per raggiungere la mia scuola, tra il traffico che ingorga le rotonde di questo hinterland milanese che non si sa più dove cominci e dove finisca; tra il traffico che è fatto di padri e madri che portano figli a scuola, di pullman carichi di altri figli, o ancora di figli che viaggiano, con improbabili caschi e criniere, a zig­zag su motorini e scooter. Ma appena fatto qualche centinaio di metri, appena imboccata la via che porta alla prima maledetta rotonda, mi accorgo che c’è qualcosa di strano: niente fila, niente zig­zag, non bisogna nemmeno fare a sportellate per immettersi in quello che di solito assomiglia più a un girone infernale che a uno stratagemma per eliminare i semafori.
Dove sono? Possibile che abbia sbagliato a guardare l’ora? Possibile che oggi, mercoledì ore 07.45, ci sia uno sciopero a scuola di cui non sapevo nulla? C’è in giro qualche camion, qualche operaio, qualche professore, forse.
Ma i padri e i figli? Dove si sono cacciati? E poi, ecco: l’alternanza scuola­lavoro, è quella legge lì che ha svuotato le strade che portano a scuola. E ne avrà riempite altre di certo: immagino questi padri a smanettare con il navigatore, il figlio sul sedile del passeggero con le cuffie a manetta, nel cuore di entrambi una speranza nuova e segreta. Ciascuno di loro in viaggio verso un’azienda, un’officina, un ufficio, un magazzino o un negozio dove un premuroso operatore addetto alla formazione interna li attende per tutte le istruzioni del caso. Eccola lì la Samantha, terzo anno del sistema Moda (mi pare che si chiami così e vuol dire che studia quasi da perito tessile, mi sembra) eccola lì che scende dall’auto e s’avvicina alla vetrina del negozio di intimo e pigiami che ha risposto all’appello dei professori, che ha predisposto secondo la normativa vigente tutto il suo percorso formativo per questo lungo tirocinio di un mese.
Un mese? E proprio nei giorni in cui si fa lezione, non per esempio dal 10 di giugno, che le lezioni sono finite e questi figli qui sono in giro a fare niente? E allora quando studierà chimica dei tessuti, la Samantha? Vuoi farmi credere che un mese a vendere calze e mutande le garantirà l’acquisizione di quelle competenze trasversali europee senza le quali non potrà mai trovare un lavoro? Eccolo lì il Kevin, quarto anno dell’istituto tecnico industriale che si prepara a salire sul camioncino della New Wave Idrotermica con il suo formatore alla guida e al cellulare che gli anticipa il giro da fare.
E così ogni giorno per un mese, anche lui, ad acquisire competenze europee e a smadonnare su tubi e chiavi inglesi. E cosa ne sarà dell’Alessandro, che l’hanno strappato dalla quarta liceo classico, dai filosofi del cogito e del dubbio e l’hanno mandato in una segreteria di una scuola elementare a sistemare gli archivi?
Comunque, ecco perché adesso, davanti a me, la strada è vuota e fare la rotonda è come fare un giro di valzer nel capodanno di Vienna. Un’idea straordinaria questa qui della Buona Scuola di Renzi per deviare il traffico dalle solite strade, per deviare gli studenti dal loro percorso monotono anche se a zig­zag. E tutto senza oneri: riescono sempre delle magie nella scuola. Agli alunni si riesce a insegnare le stesse cose, anzi di più, con un mese di meno; agli insegnanti si riesce a convincerli a passare il tempo, da gennaio a maggio, al telefono con aziende che quando sentono che sei della scuola tal dei tali mettono giù come se avessi proposto l’acquisto di dieci lattine di olio dalla Liguria; ai genitori si riesce a far credere che, dopo le lim e l’e­twinning, adesso si fa sul serio e i ragazzi mettono giudizio e imparano a faticare davvero. E’ agli imprenditori che ancora non si riesce a far credere niente, ma ci stanno pensando.
Anche a me sono riusciti a mettermi di buon umore, tanto che mi viene da cantare quella vecchia canzone dell’Equipe 84: “Tutta mia la città, un deserto che conosco…”. E’ talmente deserto che viaggio con venti minuti d’anticipo e mi viene quasi voglia di andare a trovare il mio amico e collega nella sua scuola superiore, magari mi offre un caffè. Lo trovo lì, infatti, nel bar della scuola, con altri colleghi. E’ già al secondo caffè, mi dice; è dura stare qui senza alunni, mi dice. Hanno organizzato qualcosa, forse anche un torneo di calcetto, li pagano uguale, del resto (non solo loro, ma anche quelli che sono arrivati con le dotazioni aggiuntive, tutti quelli che dovevano migliorare l’offerta formativa? Sì, ma di loro bisognerà parlare in un altro momento). Ma vuoi mettere come ti passa più veloce il tempo a rimproverare le Samanthe e i Kevin e gli Alessandri? Lo lascio così, un po’ affranto e un po’ spento. Io vado via, verso la mia scuola, secondaria sì, ma di primo grado, dove l’alternanza ancora non c’è. E’ così che mi sveglio, dentro il sogno che ho fatto.
E’ in realtà una deliziosa mattinata di ottobre e come ogni mattina da settembre a giugno mi preparo a lottare contro il tempo per raggiungere la mia scuola. Sono le 7.45, la strada è piena di padri e di figli, motorini a zig­zag, pullman stracolmi, rotonde infernali, imprenditori felici di non doversi inventare qualcosa di strano per far credere a tutti che la Buona Scuola è incominciata davvero.
Il traffico non mi piace, ma non lo cambierei mai lo stesso con il deserto di una città che manda in giro i suoi figli chissà dove e perché. Forse è il caso di ripensarci a questa alternanza, a questa finzione che non serve a nessuno, che soltanto nei sogni svuota le strade. In mezzo al traffico io canto un’altra canzone, una canzone di Dalla che racconta una Milano di fatica e mistero. Come una scuola vera, non come un lavoro finto.

http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2015/10/22/SCUOLA-Macche-alternanza-serve-una-scuola-vera-non-un-lavoro-finto/648795/

domenica 29 maggio 2016

L’ alato paradigma







Fiammate di futurismo al palazzaccio di Trastevere. Desse per caso ebbrezza aver finestre sopra cupole romane? Il fatto: lo scorso Dicembre, finite le spossanti nottate della 107, il capo-segreteria tecnica della ministra, emette seguente cogitativo, “Stiamo facendo una follia, una lucida follia (…). Il momento per fare il cambio di paradigma è questo: ora o mai più. Non si parte mai quando si è pronti al 100%, perché altrimenti non si fa mai nulla”. Pare D’Annunzio in partenza per Vienna. È invece Luccisano, 33 anni, laurea in Scienze internazionali e diplomatiche, specialista in “innovazione”, esperienze al Ministero degli esteri, ENEL e Confindustria. Insomma, un predestinato. Sta parlando di uno dei pilastri della “buona scuola”, la cosiddetta alternanza scuola-lavoro. La macchina è pronta, indietro non si torna; i risultati arriveranno; in Campania, ad esempio, dove 13 istituti superiori - mille alunni - si apposteranno attorno all’area archeologica di Pompei: quelli dell’Agrario cureranno il verde; i liceali compileranno cataloghi digitali e assisteranno turisti.
Chissà a cosa mai potrà servire ad un futuro ingegnere, avvocato o urologo, aver catalogato antichità e accompagnato turisti. Mistero. Ma son dubbi da semplicioni. Ciò che importa è innovare.

Con leggera nausea, vedo gente arrabattarsi per realizzare l’ennesima trovata: puntate in azienda, incontri con l’Ispettorato del lavoro, visite a musei, lezioncine di economia, scorribande su Internet, slogan e logo per “imprese simulate”, tagliandi colorati da vendere (le “azioni”); e alla fine la sfida mortale: i simulatori riuniti gareggeranno per stabilire chi meglio simulò. Sessantasei hanno da essere (ore), e sessantasei saranno; e ai DS dubbiosi, bacchettate sul nervo sensibile: lo stipendio.
Siamo alla tragica farsa. Chi fa scuola sul serio, sa benissimo che, considerate vastità e complessità dei programmi, anche se non si facesse altro che spiegare e verificare, il tempo sempre poco sarebbe. Figurarsi ora che al ben noto carosello di extra, si aggiunge il tributo al nuovo feticcio.

Con vago raccapriccio vedo dilapidare un tempo prezioso che non tornerà più. Il tempo della costruzione del pensiero astratto, della memoria, del linguaggio. Un tempo denso, lento, conflittuale, irto di retroscena, decisivo. E osservo loro, i “beneficiati”: sono un po’ confusi, un po’ divertiti, un po’ stufi di questo continuo agitarsi per dargli novità.
Al 33enne politico-tecnocrate, una preghiera: la prossima volta che cambia un paradigma, faccia il piacere, controlli bene se il nuovo che sostituisce al vecchio, non sia, per caso, il vecchissimo “facimmo ammuina”.

      gm

mercoledì 6 aprile 2016



La filosofia della scarsità e i Trastevere boys.

Di Montesquieu
CENTRO STUDI GILDA

03 Novembre 2014 | di Stefano Battilana                                                       

L’aureo libretto “labuonascuola”, nelle sue coloratissime 136 pagine in stile powerpoint, mostra un intreccio di interazioni scolastiche quasi idilliaco: nel mondo disegnato dai curatori, tutti rispettano il proprio ruolo e vi adempiono con cura e competenza, la società cresce e l’educazione ne è il veicolo. Che bello! Tutto è animato come in un film a fumetti di Bruno Bozzetto e le buone pratiche apprese fra i banchi permeano l’intera società.

Mai quindi vorremmo buttare a mare un’occasione così storica, e forse irripetibile, fin dai lontani tempi miei (parliamo di almeno tre secoli ...): la centralità della scuola nel processo civile, sociale ed economico. Tuttavia, apprezzata la centralità, non mancano le criticità di tipo culturale, metodologico e strutturale. Tutte questioni così terrene, che qui la nostra penna non affronterà, volendosi occupare solo della filosofia politica che sta dietro il disegno. Vi troveremo le tracce di un mio illustre collega, pensatore del secolo a me precedente, le cui riflessioni economiche “liberali” sono giunte fino a questi giorni ad epigoni forse inconsapevoli.

“Labuonascuola” (d’ora in avanti lbs) ha incantato persino le mie vecchie pupille, al punto da spingermi a una lettura testuale e analitica, soprattutto del II capitolo, quello dedicato alla carriera dei pubblici precettori. Se ne assumeranno 150.000, cioè circa 1/5 dell’intero corpo docente e a quel punto si dovranno dividere le cibarie a un banchetto molto più affollato. Ma, niente paura, rassicurano gli estensori, “le risorse saranno le stesse” (p. 57), anche se contrariamente ad adesso non saranno più frazionate in parti uguali, ma “meritoriamente” distribuite ai 2/3 di buoni e negate all’1/3 di reprobi. Quindi, avete capito bene, le stesse risorse non saranno più equamente suddivise, ma diversamente distribuite. E a che pro tutta questa sperequazione? Per “far uscire i docenti dal grigiore dei trattamenti indifferenziati” (p. 47). Per creare “dinamismo nel sistema”, cioè, dico io, il terrore della competizione indiscriminata, in un rinnovato Stato di natura primigenio. Ecco, la comparsa del nostro rinomato predecessore filosofo: si tratta nientemeno che delle teorie di Thomas Hobbes, l’inventore dello Stato come Leviatano, il quale riteneva positivo il valore della competizione: così l’uomo, opportunamente pungolato, dava il meglio di sé. Vi fossero state risorse abbondanti per tutti, il banchetto della Natura avrebbe prodotto pigri commensali, invece la filosofia politica hobbesiana portava a teorizzare la scarsità come male necessario, un pungolo che avrebbe spinto l’uomo a collaborare col prossimo per ottimizzare le risorse. Ciò secondo il principio che l’uomo nasce cattivo e i vincoli sociali e giuridici lo costringono alla “bontà”, principio che si dice sia a fondamento della Costituzione americana: “buone leggi per cattivi uomini”.* Certo, il nostro amico Thomas è generalmente molto più ricordato per l’icastica descrizione di una guerra perenne fra simili (il famoso “bellum omnium contra omnes” oppure l’indimenticabile “homo homini lupus”), ma le sue teorie sul dinamismo economico dovuto alla competizione sono alla base, pur se passate attraverso il contributo di altri inglesi, del moderno liberismo economico. Per i docenti descritti in lbs, il concetto è lo stesso: non si crede affatto al loro merito intrinseco, ma solo a quello che può venir loro attribuito da un “incentivo sano” (p. 58). Non si crede affatto che l’insegnante possa trovar premio (e quindi merito) a sé stesso, nella soddisfazione di svolgere al meglio il proprio lavoro, nella gratificazione di aver fatto una bella lezione o nello sguardo riconoscente di un alunno.

L’unico merito necessario appare quello estrinseco, quantificabile in un portfolio di crediti, la cui attribuzione è tanto aleatoria quanto foriera di conseguenze stipendiali. E’ la scarsità di Hobbes, che tanto più disorienterà gli anziani piuttosto che i giovani, con l’effetto perverso che la valutazione su base esperienziale rischierà di essere completamente ribaltata. Del resto giovani, per non dire giovanissimi, lo sono certamente i curatori di lbs: il più vecchio di loro è del 1978, tutti brillanti studiosi, certamente “innovatori naturali”, uno stupefacente neologismo di lbs, sono principalmente economisti, decorati di Master internazionali e con dettagliati curricola, pur se molto simiglianti fra loro. Nessuno di loro ha mai messo piede a scuola, se non da studente, neppure per una supplenzina. E vogliamo pensare che questo sia buona cosa, in modo da avere sulla scuola uno sguardo disincantato e scevro da faziosità. Giovane è il loro stile, infarcito di neologismi da net generation: barcamp, hackathlon, unconference, ecc. Ricordano un po’ quella generazione di giovani economisti cileni, allievi di Milton Friedman a Chicago, che ritornarono nella loro patria del dopo Allende, in un Cile devastato da una profonda crisi economica, e, applicando i rigidi principi del neo-liberismo, riuscirono a risanare il paese, pur se a costo di grandi sacrifici. Questo modello economico è stato smagliante fino al 2008, quando il suo astro decadde, per non aver saputo contrastare la crisi dei mutui sub-prime: si spinse lo stato a non intervenire nel salvataggio del mercato e questo provocò più danni di quelli evitabili fin dall’inizio, con più modica spesa.

Ecco, i nostri curatori di lbs sono tutti consulenti esterni del MIUR, portati a Viale Trastevere dal ministro Giannini, il loro curriculum è appunto rintracciabile sul sito del ministero e ci ricordano tanto quella stagione neoliberista chiusasi nel 2008: sono loro la nostra Trojka, pronta a commissariare la carriera docente finora affidata ai “vetusti” scatti di anzianità. Tuttavia non disperate: già nel 2000 la competizione che si voleva introdurre col Concorso Berlinguer portò invece alla condivisione e all’unità della categoria. Succede: noi la chiamiamo “eterogenesi dei fini”.

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* secondo la definizione di J. Brodskij, Premio Nobel per la Letteratura nel 1987, poeta russo naturalizzato statunitense