sabato 4 febbraio 2017

reprise roba vecia

CORPO 18

Ovvero, "L'arte è un appello al quale molti rispondono senza essere stati chiamati."
(Leo Longanesi)

Il congegno della serata era perfettamente oliato, il titolo di un’audacia mai vista, “Launeddas all’idrogeno”. Un’idea brillante, come sempre venuta a lui, il suo nume e mentore, il critico-amico, Euforbio. Tutto gli doveva: massime, di avergli spiegato come funziona l’arte. “Vedi – gli diceva – non illuderti: vendere quadri non conta. Conta quanto si parla di te. C’è gente di fama consolidata, invitata, citata, stracitata, che ha venduto pochissimo. Dà retta: coltiva l’ambiente”. Era saggio Euforbio; un uomo saggio e buono; che certo non si meritava di venir trascinato all’altro mondo da una cosa volgarissima come un cancro alla prostata. Una roba da tutti. Destino infame…Lui, che aveva lasciato al mondo cose immortali come, “Il manuale del pittore come uomo sociale”, il cui capitolo 7°, (“Dell’arte di convertire in bello ciò che è soltanto difficile a capirsi”), era diventato oggetto di tesi universitarie e comunicazioni tra dotti. Lui, l’ineguagliato costruttore di aforismi (“Se l’arte è menzogna, non è men vero che la menzogna è arte”). Lui, l’intellettuale forbito, ironico, luciferino, spacciato da un male che viene pure a domestici e benzinai.
Ahhh…ma l’ultima idea brillante aveva pur fatto a tempo a lasciargliela, l’arma risolutiva, quella che finalmente l’avrebbe consacrato perfetto pittore della sua provincia: Launeddas all’ idrogeno, appunto.
“Vedi –usava dire– l’arte è come un sistema chiuso, autoreferenziale…”. Oh! Quella parola! Così lunga e difficile, a u t o r e f e r e n z i a l e…che gusto, che suono; aveva iniziato ad usarla molto tempo prima di averne capito il senso; una parola densa, profonda, oscura al punto giusto.
Intendiamoci: non sempre Euforbio parlava difficile. Anzi, talora inclinava persino al popolaresco. Notissima, e passata in leggenda, quella volta che aveva zittito una saccente e ipertricotica Accademica dell’arte, fulminandola con un “ma si vada a fare una ceretta!” E un’altra, che aveva liquidato un malcapitato che lo contraddiceva con un, “ma vada a rubare un motopicco!”.
Un giorno, seduto al bar, Euforbio aveva disposto in cerchio un accendino, un tappo di sughero, un bicchiere, una sigaretta, una tazzina e qualcos’altro; poi, con diabolica lentezza, aveva cominciato, “Vedi, questo è l’artista, questo il gallerista, questo il critico, l’assessore, il giornalista…Allora, funziona così: tu inventi una mostra dal titolo bizzarro, il gallerista-amico te la ospita, l’assessore-amico te la inaugura, il critico-amico te la presenta, il giornalista-amico te la recensisce sul quotidiano locale. Il gioco è fatto. Tu leggi, ti gasi, e nove mesi dopo hai già in canna un'altra mostra. E il giro riparte. Non hai venduto neppure un quadro che sia uno?! Fa nulla. Stai in corpo 18 sul giornale. E questo basta.”
Si avvicinava la data fatale e Launeddas all’idrogeno era sulla bocca di tutti: si chiacchierava, si domandava, si ipotizzava. Qualcuno – un decrepito giornalista che in gioventù le aveva suonate – gridava alla dissacrazione. Venne infine il gran giorno: il Discepolo di Euforbio si vestì secondo i precetti del maestro – che suggeriva, per queste occasioni, una “eleganza sbadata” – poi provò allo specchio 77 volte un “sorrisetto di metafisica nausea” – anch’esso raccomandato nel manuale –; quindi uscì e si incamminò. Stava pensando a quale aerea battuta fare all’ingresso in Galleria, quando sentì il piede destro orrendamente scivolargli in avanti. “Dio! – pensò sconvolto – fa che non sia quello che temo!” Mise una mano sulla cantonata e ruotò lentamente la suola verso l’alto: nessun dubbio. Rifiuto solido organico, deiezione biologica, immondo prodotto finale di digestione canina. Insomma, merda. Stramaledisse tutti i cani della città e le anziane signore che se ne dilettavano; poi, volgendosi assorto verso Monte S. Michele dove, sotto un cipresso, ne imputridivano romanticamente le ossa, mormorò, “Euforbio, amico di una vita, tutto prevedevi, Tu. Ma ti sfuggì l’escremento.”

                                                                                                                                            Gigi Monello