L' ultima accabadora che ha
operato a Gergei si chiamava Luisica Conch' 'e Cuaddu, e il suo ultimo
intervento deve essere stato nel primo dopoguerra, a favore di un uomo di nome
Piriccu F. che aveva il vizio di fumare il sigaro a fogu aintru,
cioè tenendo la brace del sigaro dentro la bocca, abitudine a quei tempi molto
diffusa, ma deleteria per la salute. Infatti ziu Piriccu si prese un
brutto tumore alla bocca che sul finire gli procurava dolori atroci e per
questo chiese l' intervento de s' accabadora per praticargli la " dolce
morte". L' intervento fu poi praticato con l' approvazione più o meno
esplicita della comunità.
Se ne può trovare qualche traccia anche nel mio paese. Si racconta infatti che
tale C. T., verso gli anni '60, saputo della nascita di un un figlio del
fratello, si recò a fare visita per vedere il nipote, e dopo averlo esaminato
disse: "Mi paridi leggixeddu meda. Ita feis, dhu chisteis ? ", (
Mi sembra molto bruttino. Cosa fate lo allevate ?); facendo riferimento e
consigliando in pratica l' infanticidio. Per fortuna ormai i tempi erano già
molto cambiati, e specie la madre si scandalizzò e il neonato fu allevato. Però
lo zio, sul suo stato di salute aveva visto giusto. Infatti il bambino era
sempre malaticcio, e crescendo andò sempre peggiorando fino a diventare
invalido al 100 x 100 e, carico di malanni, finì allettato.
In realtà la pratica
eutanasica de s' accabadora è stata introdotta nell' ottocento come
pratica meno crudele di quella di buttare i vecchi giù da un dirupo, usata fino
ad allora, o di abbandonarli in campagna, pratica meno cruenta ma anch' essa
crudele. Per questo motivo penso che sarebbe opportuno rivalutare la figura de
s' accabadora, almeno ora che la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale
ha riconosciuto il diritto al suicidio medicalmente assistito ad alcune
tipologie di pazienti. Il suo metodo, infatti, non faceva soffrire l' anziano
perché la specialista, prima lo faceva svenire con un colpo secco alla
tempia col suo martello di legno, per poi, subito dopo, soffocarlo col cuscino.
Inoltre prima si accertava se il paziente fosse in grado di intendere e di
volere; e, in tal caso, se fosse consenziente e determinato, come chiarisce
bene la scrittrice Michela Murgia nel suo Accabadora edito da
Einaudi.
Quindi, già molto tempo prima della sentenza della suprema Corte, s' accabadora
sarda si ispirava, sostanzialmente, ai criteri da essa poi stabiliti. Dunque,
rivalutiamola pure.
Una pratica di
"anestesia", simile a quella citata, la si attuava anche dai dentisti
nel Far West, come si vede in certi film western, assestando un colpo di
mattarello alla tempia del paziente prima dell' estrazione del dente.
Queste antiche pratiche sono ben documentate dalla nota studiosa Dolores
Turchi, sia sulla base di testi di autori latini e greci, sia di testimonianze
di alcuni anziani di vari paesi del centro Sardegna (1)
Anche F. Masala in Il culto delle acque in Sardegna, riporta di due
storici greci, Timeo a Eliano, che dicono che in Sardegna i figli buttavano i
vecchi nelle pozze dei fiumi o nei baratri pieni d'acqua (sos mammuscones)
quando raggiungevano i 70 anni, col rituale dell' affogamento. A Cossoine (SS)
esiste una voragine naturale in cui scorre acqua, Sa ucca 'e su Mammuscone,
dove secondo le leggende locali venivano buttati i vecchi e anche le ragazze
che restavano incinte senza essere sposate. Masala fa anche l' interessante
ipotesi che il nome Mamuthones derivi da mammuscones e
che la "processione danzata "(R. Marchi) eseguita dalle maschere
tipiche del carnevale di Mamoiada (sos Mamuthones, i vecchi; e sos
Issohadores, i giovani), sia "la permanenza folclorica dell' antichissimo
rito dell' affogamento nelle acque" delle voragini dette "
mammuscones ".
Testimonianze chiare della
pratica di abbandonare i vecchi in campagna ci sono anche nel mio paese. Si
trovano nel racconto di come fu dismessa quella tradizione, e mi sembrano
credibili perché sostanzialmente uguali, pur con qualche differenza, alle
testimonianze raccolte dalla Turchi in paesi distanti tra loro e di cultura e
lingua un po' diverse. Anche mia moglie, che ha trascorso buona parte dell'
infanzia in Abruzzo, ricorda di avervi sentito un racconto simile, ma con una
significativa differenza.
Quanto alle motivazioni di quella tradizione, si dice che all' inizio dell' inverno, quando la sopravvivenza diventava più difficile, e i vecchi non autosufficienti apparivano un peso gravoso per la famiglia e una bocca in più da sfamare, erano loro stessi a chiedere il trattamento previsto dalla tradizione, sacrificandosi volentieri per dare una possibilità in più alla nuova generazione dei nipoti. Tutti i testi e le testimonianze sembrano concordano sul fatto che i vecchi accettassero volentieri questa tradizione e la difendessero.
Quanto alle motivazioni di quella tradizione, si dice che all' inizio dell' inverno, quando la sopravvivenza diventava più difficile, e i vecchi non autosufficienti apparivano un peso gravoso per la famiglia e una bocca in più da sfamare, erano loro stessi a chiedere il trattamento previsto dalla tradizione, sacrificandosi volentieri per dare una possibilità in più alla nuova generazione dei nipoti. Tutti i testi e le testimonianze sembrano concordano sul fatto che i vecchi accettassero volentieri questa tradizione e la difendessero.
Checchè ne dicano i racconti, io da indomito seguace del materialismo storico,
credo che il vero motivo per cui si abbandonò quella pratica, era che le
condizioni di vita stavano migliorando e quindi quella tradizione crudele non
aveva più senso di esistere.
Un racconto del mio paese dice di un uomo che stava portando il padre in
campagna a spalla. Giunto a un posto non molto lontano dal paese chiamato s'
abasiadroxu dove si riposavano quelli che trasportavano fasci di legna da
ardere a spalla, si fermò per riposare. Il padre gli disse: "Innoi m'
arregodu ca mi fui abasiau deu puru candu 'ncia portau a babbu miu a su
sartu". (Qui mi ricordo che riposai anch' io quando portai mio padre in
campagna). A questo punto l' uomo, riflettendo sulle parole del padre, capì che
quello sarebbe stato anche il suo personale destino e decise di rompere la
tradizione, riportando il padre a casa per assisterlo. La variante abruzzese
dice che mentre l' uomo stava per uscire di casa, il figlio gli chiese dove
stava andando, e alla spiegazione del padre disse :" Voglio venire
anch'io, così imparo per quando dovrò portare te ". A queste parole anche
l' uomo abruzzese capì che era meglio rompere quella tradizione e lasciò in
casa il padre per assisterlo. Anche gli indiani d' America avevano tradizioni
simili; però presso di loro i vecchi, quando sentivano che le forze li stavano
abbandonando, si allontanavano da soli per lasciarsi morire nelle campagne.
Nota (1) D. Turchi, Leggende
e racconti popolari della Sardegna; idem, Lo sciamanesimo in Sardegna;
idem, Le tradizioni popolari della Sardegna. Questi tre testi vanno bene
anche per chi volesse approfondire la conoscenza dei contus de forredda o
de foghile, perché la maggior parte rientrano in tale categoria, anche se
ciò non viene specificato.
Antonio Murgia
ex Docente Liceo Scientifico Pacinotti - Ca
Credo che si tramandi lo stesso racconto in tutti i paesi della Sardegna. Nel mio (Lula) è rimasta tuttora in uso un'espressione:"Min che ses aggabanne", che in genere è utilizzata da un genitore nei confronti di un figlio, per esprimere con forza una ferma condanna dei suoi comportamenti/delle sue azioni, talmente gravi da mettere a serio rischio la vita del genitore stesso.
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