mercoledì 6 aprile 2016



La filosofia della scarsità e i Trastevere boys.

Di Montesquieu
CENTRO STUDI GILDA

03 Novembre 2014 | di Stefano Battilana                                                       

L’aureo libretto “labuonascuola”, nelle sue coloratissime 136 pagine in stile powerpoint, mostra un intreccio di interazioni scolastiche quasi idilliaco: nel mondo disegnato dai curatori, tutti rispettano il proprio ruolo e vi adempiono con cura e competenza, la società cresce e l’educazione ne è il veicolo. Che bello! Tutto è animato come in un film a fumetti di Bruno Bozzetto e le buone pratiche apprese fra i banchi permeano l’intera società.

Mai quindi vorremmo buttare a mare un’occasione così storica, e forse irripetibile, fin dai lontani tempi miei (parliamo di almeno tre secoli ...): la centralità della scuola nel processo civile, sociale ed economico. Tuttavia, apprezzata la centralità, non mancano le criticità di tipo culturale, metodologico e strutturale. Tutte questioni così terrene, che qui la nostra penna non affronterà, volendosi occupare solo della filosofia politica che sta dietro il disegno. Vi troveremo le tracce di un mio illustre collega, pensatore del secolo a me precedente, le cui riflessioni economiche “liberali” sono giunte fino a questi giorni ad epigoni forse inconsapevoli.

“Labuonascuola” (d’ora in avanti lbs) ha incantato persino le mie vecchie pupille, al punto da spingermi a una lettura testuale e analitica, soprattutto del II capitolo, quello dedicato alla carriera dei pubblici precettori. Se ne assumeranno 150.000, cioè circa 1/5 dell’intero corpo docente e a quel punto si dovranno dividere le cibarie a un banchetto molto più affollato. Ma, niente paura, rassicurano gli estensori, “le risorse saranno le stesse” (p. 57), anche se contrariamente ad adesso non saranno più frazionate in parti uguali, ma “meritoriamente” distribuite ai 2/3 di buoni e negate all’1/3 di reprobi. Quindi, avete capito bene, le stesse risorse non saranno più equamente suddivise, ma diversamente distribuite. E a che pro tutta questa sperequazione? Per “far uscire i docenti dal grigiore dei trattamenti indifferenziati” (p. 47). Per creare “dinamismo nel sistema”, cioè, dico io, il terrore della competizione indiscriminata, in un rinnovato Stato di natura primigenio. Ecco, la comparsa del nostro rinomato predecessore filosofo: si tratta nientemeno che delle teorie di Thomas Hobbes, l’inventore dello Stato come Leviatano, il quale riteneva positivo il valore della competizione: così l’uomo, opportunamente pungolato, dava il meglio di sé. Vi fossero state risorse abbondanti per tutti, il banchetto della Natura avrebbe prodotto pigri commensali, invece la filosofia politica hobbesiana portava a teorizzare la scarsità come male necessario, un pungolo che avrebbe spinto l’uomo a collaborare col prossimo per ottimizzare le risorse. Ciò secondo il principio che l’uomo nasce cattivo e i vincoli sociali e giuridici lo costringono alla “bontà”, principio che si dice sia a fondamento della Costituzione americana: “buone leggi per cattivi uomini”.* Certo, il nostro amico Thomas è generalmente molto più ricordato per l’icastica descrizione di una guerra perenne fra simili (il famoso “bellum omnium contra omnes” oppure l’indimenticabile “homo homini lupus”), ma le sue teorie sul dinamismo economico dovuto alla competizione sono alla base, pur se passate attraverso il contributo di altri inglesi, del moderno liberismo economico. Per i docenti descritti in lbs, il concetto è lo stesso: non si crede affatto al loro merito intrinseco, ma solo a quello che può venir loro attribuito da un “incentivo sano” (p. 58). Non si crede affatto che l’insegnante possa trovar premio (e quindi merito) a sé stesso, nella soddisfazione di svolgere al meglio il proprio lavoro, nella gratificazione di aver fatto una bella lezione o nello sguardo riconoscente di un alunno.

L’unico merito necessario appare quello estrinseco, quantificabile in un portfolio di crediti, la cui attribuzione è tanto aleatoria quanto foriera di conseguenze stipendiali. E’ la scarsità di Hobbes, che tanto più disorienterà gli anziani piuttosto che i giovani, con l’effetto perverso che la valutazione su base esperienziale rischierà di essere completamente ribaltata. Del resto giovani, per non dire giovanissimi, lo sono certamente i curatori di lbs: il più vecchio di loro è del 1978, tutti brillanti studiosi, certamente “innovatori naturali”, uno stupefacente neologismo di lbs, sono principalmente economisti, decorati di Master internazionali e con dettagliati curricola, pur se molto simiglianti fra loro. Nessuno di loro ha mai messo piede a scuola, se non da studente, neppure per una supplenzina. E vogliamo pensare che questo sia buona cosa, in modo da avere sulla scuola uno sguardo disincantato e scevro da faziosità. Giovane è il loro stile, infarcito di neologismi da net generation: barcamp, hackathlon, unconference, ecc. Ricordano un po’ quella generazione di giovani economisti cileni, allievi di Milton Friedman a Chicago, che ritornarono nella loro patria del dopo Allende, in un Cile devastato da una profonda crisi economica, e, applicando i rigidi principi del neo-liberismo, riuscirono a risanare il paese, pur se a costo di grandi sacrifici. Questo modello economico è stato smagliante fino al 2008, quando il suo astro decadde, per non aver saputo contrastare la crisi dei mutui sub-prime: si spinse lo stato a non intervenire nel salvataggio del mercato e questo provocò più danni di quelli evitabili fin dall’inizio, con più modica spesa.

Ecco, i nostri curatori di lbs sono tutti consulenti esterni del MIUR, portati a Viale Trastevere dal ministro Giannini, il loro curriculum è appunto rintracciabile sul sito del ministero e ci ricordano tanto quella stagione neoliberista chiusasi nel 2008: sono loro la nostra Trojka, pronta a commissariare la carriera docente finora affidata ai “vetusti” scatti di anzianità. Tuttavia non disperate: già nel 2000 la competizione che si voleva introdurre col Concorso Berlinguer portò invece alla condivisione e all’unità della categoria. Succede: noi la chiamiamo “eterogenesi dei fini”.

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* secondo la definizione di J. Brodskij, Premio Nobel per la Letteratura nel 1987, poeta russo naturalizzato statunitense

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