mercoledì 15 maggio 2024

L’ontologia mette la toga


 

Sa di greco ma i greci non lo usavano. Il primo ad inventarselo, all’inizio del ‘600, fu Jacob Lorhard, professore svizzero di arti liberali; signore dimenticatissimo. Poi capitò nelle mani di Christian Wolff, seguace di Leibniz, e fu la consacrazione. Vecchio e severo vocabolo, “ontologia”; tanto severo da mettere soggezione. Nel lessico filosofico significa un discorso (logos) teso a rintracciare le strutture profonde dell'essere (ontos); il nocciolo delle cose, insomma; l'essenza. È l'eterna tentazione dell'anima più ambiziosa della filosofia (da Platone ad Heidegger, passando per Hegel e Marx); cui, da sempre, fa da contrappunto la sospettosità dell'anima più disincantata (da Socrate a Popper, passando per Locke e Voltaire). Filosofi tender-minded (menti delicate) e tough-minded (menti dure): così tipizza chi parla inglese; filosofia come discorso sull'essere e filosofia come analisi dell'esperienza. Il “delicato” elabora sistemi generali; il “duro” sta agli scabri fatti constatabili.

Come si sa le parole migrano, sconfinano, colonizzano. Non sorprende dunque trovare l'ontologia anche nel documento con cui il Sindacato Magistrati italiani ha chiuso il suo congresso palermitano. Respingendo ogni possibile ipotesi di separazione delle carriere, l'ANM afferma: L'unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme. Enunciazione solenne: ogni separazione dei Pubblici Ministeri (magistrati che indagano) dal resto della categoria, li porterebbe fatalmente nella sfera di influenza del potere politico-governativo, con serissime conseguenze sul “controllo di legalità” che i magistrati - indaganti o giudicanti - devono esercitare senza guardare in faccia nessuno. Di passaggio, ricorderemo che la descritta deformità esiste in Inghilterra, Canada, Svezia, Germania, USA, Portogallo, Spagna, Australia, Giappone, Nuova Zelanda; e, nei fatti, in Francia.

Ora, siccome la filosofia ha due anime (e forse di più), passeremo dal discorso sull'essere all’analisi dell'esperienza, la quale, avendo la “mente dura”, per organizzarsi ricorre spesso alla sotto-categoria ontologica dei fatti e dei numeri. In Italia è rarissimo che un Giudice delle indagini preliminari prenda decisioni diverse da quanto chiesto dal PM (rinvio a giudizio o archiviazione); quando lo fa sono clamori (caso Perna a Milano); nella cosiddetta Udienza preliminare, dove, in seconda battuta, si vaglia l’opportunità di spedire qualcuno a processo, i casi in cui il Giudice delude il PM non arrivano al 3% del totale; se poi si guardano gli esiti dei processi di primo grado, si scopre che nel 50,05% dei casi l'imputato viene assolto. Oggi, PM e Giudici passano la loro vita negli stessi palazzi e pertinenti corridoi, fanno gli stessi concorsi, partecipano agli stessi corsi di aggiornamento; i maligni aggiungono all’elenco anche le pause-caffè; durante i primi dieci anni di carriera possono - per una volta - passare dall'uno all'altro ruolo; e, per finire, vengono ogni quattro anni valutati da un Consiglio Giudiziario distrettuale (una sorta di CSM locale) eletto da loro stessi medesimi; un organo “misto” dove le valutazioni si incrociano: Pubblici Ministeri valutano Giudici; e Giudici, Pubblici Ministeri. Risultato? Il 99,2% viene promosso. Che significa che tutti arrivano a fine carriera con medesimi, sostanziosi stipendi e pensioni. A prescindere. Ce ne è abbastanza per farsi venire il ragionevole dubbio che quando entra in aula, il Magistrato giudicante veda il Magistrato indagante leggermente più alto dell'Avvocato difensore?

I dirigenti dell' ANM avrebbero anche potuto scrivere che “l'unicità delle carriere è caratteristica essenziale della Magistratura”. Ma non hanno resistito: vuoi mettere un “essenziale” con un “ontologico”?


                                                                                             gigi monello

domenica 14 gennaio 2024

L'ospedale che non cura



Che pensereste di un Ospedale che, dopo un soggiorno ricco di ogni comfort, dimettesse i suoi pazienti senza averli curati? Tutto il male possibile, crediamo. È in questo parallelo (p.62) la migliore sintesi del recente libro sulla Scuola di Giorgio Ragazzini (Una scuola esigente. Educazione, istruzione, senso civico, Rubbettino, 2023). Da tempo la scuola italiana manca l' obiettivo di fondo: guarire i suoi “ospiti” dal naturale male della immediatezza. Deliziosa qualità da piccoli; pericoloso difetto da grandi. Egocentrismo, pre-logicità, impulsività, suggestionabilità.
Il sole gira; il bastone si spezza nell'acqua; la terra è piatta; i vaccinati si ammalano come i non vaccinati. Apparenze ingannevoli; il mondo ne è pieno. E sono in tanti a sguazzarvi. A novembre 2021 c'erano in Italia 39 milioni di vaccinati contro otto milioni di non vaccinati; e la quota di vaccinati ospedalizzati ha superato quella dei non vaccinati; è l'effetto paradosso: nessun vaccino copre il 100%; cosa risaputa; ovviamente non puoi guardare le cifre assolute e ignorare le percentuali. Basterebbe una scuola media appena appena presentabile, per uscire dotati di queste "guarnizioni" intellettuali. Quel che non succede oggi. 
Certo, l'immediatezza, cognitiva e affettiva, è un ventre caldo dal quale si esce a fatica: ci vuole studio, impegno; sforzo; disciplina; fallimenti; riprese; la faccenda procura frustrazione. Quanto è complicato il mondo: uno dice che i salari sono aumentati; un altro che prezzi di beni e servizi lo hanno fatto di più. Capire è faticoso. Analizzare stanca. Scrive l'autore, “Educare significa fondamentalmente due cose: vicinanza affettiva e allenamento alla realtà.” (p. 19). E la realtà è fatta di cose esterne spesso opache e imbrogliate; e di altri uomini spesso niente affatto disposti al dono, alla benevolenza; o alla sincerità.
L'immagine dell'Ospedale che non cura, evoca (inevitabile) Don Milani; la sua celebre denuncia contro la Scuola che boccia i più deboli. Beffardi rovesci del destino. Il suo ideale oggi si è pienamente realizzato: nessuno rischia di stare fuori; tutti saldamente dentro; tutti indifferentemente abbandonati all'allegro caos socio-educativo da cui tutti escono impugnando il successo formativo. Chissà cosa penserebbe di questa scuola/2023 Don Lorenzo; sul pensiero del quale, l'autore chiarisce, una volta di più, storici equivoci e comode, pluridecennali distorsioni (p. 41 e sgg.).

Ragazzini ci conduce in viaggio nell'universo gelatinoso della scuola indulgente: tempo dissipato in una miriade di “educazioni a qualche cosa”, con immancabile esperto in passerella (“...è semplicemente impensabile dare spazio anche solo a una parte di questa alluvione di temi (…) senza togliere ai docenti il tempo (…) per svolgere i programmi”, p. 84); occupazioni e autogestioni come consolidato, puntuale obbligo stagionale (p.86; 101 e sgg.); lezione frontale declassata a risibile vecchiume da abbandonare a favore di più smaglianti forme di edutainment (p. 142 e sgg.); scrutini finali con voti plasmati “a fantasia”, tanto da docenti benevoli (bocciare? sarebbe un trauma), quanto da Dirigenti ventilanti possibili danni “materiali” (bocciare? perdiamo cattedre) (p. 61 e sgg); diritto a copiare, diffuso, tollerato, giustificato, quasi legittimato; tanto durante l'anno come agli esami (le vie della socializzazione sono infinite) (p.77 e sgg.); comportamenti rubricabili come cronica selvatichezza; e corrispondente rassegnazione di adulti disarmati da una normativa cieca (“I comportamenti scorretti degli studenti si situano in un continuum di gravità molto ampio. A un estremo ci sono gli episodi gravissimi (…), all'altro quella che possiamo chiamare micro-indisciplina”, p.98); dilagare furbo di alunni certificati DSA (disturbi specifici dell'apprendimento), e successivo tsunami – furbissimo – di brevettati BES (bisogni educativi speciali); un palese insulto alla verità dei fatti, con connesso, pauroso aumento dei carichi burocratici (“Se per i disturbi specifici dell'apprendimento (...) si è verificata una vera e propria epidemia di diagnosi, fu subito chiaro quale alluvione di casi ci si doveva aspettare con la normativa sui BES”; pp. 118-119). Considerata l'elasticità del concetto, chiunque può sperare di mutarsi in Bes, cioè aspirare a servirsi di quella triste magia che trasforma in “diversamente sufficiente”, un profitto insufficiente .

La retorica del “purché sia nuovo”, intanto, macina, impasta e cuoce senza posa altre trovate: tutor, orientatori, potenziamenti digitali; persino educazione alle relazioni (tornassimo a far leggere i Promessi Sposi…).
L'ospedale accoglie tutti ma non cura nessuno. Come dice l'autore, a farne le spese sono soprattutto i meno socialmente supportati (“Nel corso degli anni in molti hanno avvertito che una scuola del genere – che vorrebbe essere inclusiva – danneggia proprio i ragazzi delle famiglie più svantaggiate culturalmente, il cui unico ascensore sociale è rappresentato da un'istruzione approfondita”; p.12).
L'ospedale accoglie ma non cura. Viene in mente il Priore di Barbiana, ma anche quel notissimo passo del Gorgia di Platone, dove una parte della Politica (l'attività giudiziaria) è paragonata all'arte del medico, e la Retorica all'arte del cuoco. Da buoni 25 anni campiamo di gastronomia.

                                                                                                        gm

 

martedì 14 novembre 2023

Un estratto da "La comunità dei viventi", di Idolo Hoxhvogli

 

La libertà come errore di sistema

Un estratto da La comunità dei viventi di Idolo Hoxhvogli


 

 

La società della separazione tra uomo, mistero e natura è caratterizzata da una perfida uniformità, insegna l’arte di fare a meno dell’arte. Alla degradazione delle pratiche ideali corrisponde un’estensione del campo prescrittivo. È inutile adoperarsi per un mondo migliore, se il mondo migliore è somministrato dagli altri. Basta credere, al limite adeguarsi. Le buone maniere trasmettono il valore della rinuncia ai valori. L’acquisizione dei diritti nasconde la pianificazione del desiderio, produce l’incapacità di riconoscere l’occasione della rivolta. La pedagogia, con la scusa di educare alla prudenza, imbottisce l’infanzia di paure. Il fondamento del viaggio sta nello sguardo itinerante. Fermarsi per chiedere permesso significa delegare al potere il giudizio, divenire gente vigliacca. La vita permalosa movimenta il nulla: offesa dalla verità, la aggiorna a immagine e somiglianza dell’ultimo partito. Riprogrammare l’esistente e correggere l’umanità sono gli scopi della tecnologia: sviluppa protesi che rendono invalidi i viventi, organizza una festa, dittatura a sorpresa in cui le cose esprimono tutte la stessa tesi.

 

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La morfologia, in quanto discorso sulle forme, è il principio di una filosofia dello spazio urbano. I profili architettonici, l’intreccio delle vie, le configurazioni fenomeniche degli edifici sono figure della possibilità. La costruzione è preceduta dal desiderio, strutturato in discorsi che parlano il parlante prima che il parlante parli. La città, nella sua concretezza, abita un ordine simbolico precedente allo sviluppo fenotipico. Per la filosofia dell’urbanistica sono imprescindibili l’archeologia delle convinzioni, la narratologia, l’ingegneria delle identità migranti.

La città è di Dio o dell’uomo, spiega Agostino d’Ippona nel De civitate Dei. Oggi quella dell’uomo è diventata la città della macchina. Ricoperta da materiali morti, nulla sopravvive al ritmo insostenibile che impone. La grazia è assente, metabolizzata dalla quantità insieme all’individuo in difetto. Chiedere diritti alla tecnocrazia significa ignorare che la macchina conosce solo compiti e funzioni. Nessuna città dell’uomo è capace di rovesciare la città della macchina, ne ha la forza ciò che, dentro l’uomo, abita la città di Dio, il dritto e il rovescio della stoffa edenica: speranza e nostalgia.

 

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L’ossessione per i vecchi fascismi, morti e sepolti, è il sintomo di una cecità isterica, evitamento per cui la visione dei totalitarismi aggiornati è elusa a favore di innocui fantasmi da camera. Il soggetto, reso inabile a colpi di miti consigli, si contenta del suo essere solidale, fluido, socialmente utile, a dispetto di ogni ontologia della libertà o delle contestazioni innaffiate di sangue dei bei tempi andati: rispettare le regole è diventato più importante che fare la cosa giusta. Il sostanzialismo, l’idea di una sostanza che permane malgrado le variazioni esteriori, è screditato. Il tempo passa, e passa anche l’uomo, senza un nocciolo somigliante a Dio o a sé stesso. Solo un uomo con in sé la sostanza insopprimibile della libertà vede una dittatura. I regimi riscrivono l’uomo affinché sia a disposizione del potere. Per vedere il dataismo bisogna essere uomini. Se gli uomini sono ridotti a un fascio di dati, una soggettività sintetica all’inseguimento della meta informatica del mondo, la libertà diviene un errore di sistema.

 

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Gli uomini chiedono alla Madonna di abortire Dio. In caso contrario faranno a pezzi il bambino. Lei si rifiuta. Mani ostili attraversano impazienti la cervice e rovistano nell’utero stracciando il feto. Dio è lì, spappolato con la placenta sul pavimento. Le schiere celesti si sfaldano.

Rimangono la macchina e il governo.

La macchina, per l’uomo, è un fare a meno di fare. L’uomo, per la macchina, è qualcosa di cui fare a meno. Lo scopo del governo è mettere in sicurezza gli uomini: per tenerli al sicuro li imprigiona, poi fa sì che muoiano, perché da morti non possono più morire lentamente come facevano ogni giorno. Nulla di pericoloso accade a uomini esonerati dalla vita.

Nella città della macchina le operazioni sono compiute sotto l’imperativo governativo della logica securitaria: decreta, per il bene dell’uomo, la sua fine. Non importa che l’uomo sia vivo. Importa che sia al sicuro, morto. Chi prima muore, più a lungo è salvo.

 

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Nella città della macchina si parla la lingua della macchina. La lingua degli uomini, inferiore e volgare, è vietata nelle scuole. I bambini, con la bocca cucita perché la macchina respinge gli schiamazzi, imparano a leggere il codice, riprodurre un’intelligenza artificiale, così la macchina può comprenderli e rispondere, dare ordini. La formazione colma la distanza tra lingua della vita e lingua della macchina, schiacciando l’espressione della prima sulla computazione della seconda, una domesticazione informatica del vivente. L’infanzia, posta di fronte all’algoritmo, prova un imbarazzo di carne per la propria inadeguatezza: sul lungo periodo diventa antiquata e destinata alla discarica, insieme ai disobbedienti e alle parole dei poeti. Le ombre proiettate dai sordomuti cadono dai muri in silenzio. Ciò che si deve gridare, qui si deve tacere.

 

*

 

Il codice è una versione secolarizzata della redenzione. Gli uomini, smarrito il senso di realtà, si difendono dalla realtà medesima con una stringa di numeri, un tentativo di paradiso in terra, porte aperte allo Stato poliziesco. Stretto in un recinto di dati, l’uomo è sfigurato. Una pioggia di bit, incessante e poderosa, ne cancella i lineamenti. Nei server soffia una bufera. L’architettura dei calcolatori esprime una disabitudine ai viventi. La carne è impegnata in sequenze di azioni che sono strutture di controllo. L’anima domanda se l’individuo digitalizzato appartenga alla sua specie o sia un essere abietto. Relazionarsi all’uomo come dato significa smettere di riconoscere l’altro quale uomo, dare le spalle a Cristo e rinunciare al viaggio. Gli algoritmi fissano le traiettorie, si sono impadroniti degli spostamenti. L’avventura nel metaverso manca di scarti spaziotemporali e ontologici, luoghi santi. È il non-viaggio del corpo connesso, un intrattenimento sedentario, l’esclusione del viaggio con Dio da parte della geografia computazionale.

 

 

Idolo Hoxhvogli, La comunità dei viventi, Clinamen, Firenze 2023.

 

Idolo Hoxhvogli è nato a Tirana nel 1984. Vive a Porto San Giorgio, nelle Marche. Ha studiato filosofia alla Cattolica di Milano e all’Università di Macerata. I suoi lavori sono presenti in numerose riviste, tra cui «Gradiva» e «Cuadernos de Filología Italiana». Ha scritto due libri: Introduzione al mondo e La comunità dei viventi.

sabato 26 agosto 2023

Fatali inconvenienti del non sapere la storia

 


A fine settembre 1502, quattro signorotti dell'Italia centrale al servizio di Cesare Borgia, avendo visto il loro padrone – che già s'era preso la Romagna – prendersi anche Urbino e Camerino e fare calcoli su Bologna, temendo di fare la stessa fine, si trovarono con altri scontenti alla Magione, sul lago Trasimeno; e lì ordirono una congiura per abbatterlo. 
Dopo i primi successi militari, sorsero però ripensamenti e il gruppo dei congiurati si sbandò. Subito, il Capitano della Chiesa tese loro la mano, proponendo di tornare amici e confermandogli terre e stipendi. Un incontro fu fissato a Senigallia, per il 31 dicembre; con ricco cenone - immaginiamo - a suggello della ritrovata armonia.

Oliverotto, Vitellozzo, Francesco e Paolo Orsini si presentarono all'appuntamento e vennero affabilmente accolti. Dopo una decina di minuti di sorrisi e convenevoli, improvvisamente il Duca si allontanò e i quattro furono circondati e legati. Oliverotto e Vitellozzo furono garrotati quella notte stessa (brutto capodanno), spalle contro spalle, con un unico laccio e torcolo. Per i due Orsini, ragioni politiche suggerirono di ritardare lo strangolamento di tre settimane.

Il notissimo – e mitologizzato – segretario fiorentino (Ser Nicolò), in missione sul posto, fece - abbagliato dall'energia - scrupoloso racconto al suo governo della bravura di quel Principe.
Lo stato-opera d'arte di Cesare Borgia si sfasciò sette mesi dopo e lui, terminati vagabondaggi e carcerazioni, andò a morire ammazzato in Navarra, circa 4 anni dopo, mercenario al servizio di un suo cognato.

Dai Babilonesi ad oggi, la storia è piena di parole date e non mantenute, di vassalli ribelli “perdonati”; di tiranni trionfanti e, all'apparenza, duraturi. Si tratta solo di avere l'occasione - e la pazienza - di studiarla.


                                                                                                                       gm






giovedì 16 marzo 2023

Tu chiamali se vuoi... di istruzione (30/1/2012)




Qualche anno fa, a metà Dicembre, una 5a Liceo scomparve dalla mia vista. Gita a Praga. Viaggio d'istruzione. Servirà pure a qualcosa la scuola. Bisogna avere 18 anni e buona salute, per capire sino in fondo cosa l'immaginazione associ ad un viaggio con le compagne di classe. Siccome erano canaglieschi e simpatici, e ci parlavo, al rientro, nei pochi giorni che mancavano a Natale, li intervistai. Ecco una sintesi di quell'umana vicenda:I professori? Li vedevamo solo al mattino e per la cena, in albergo; ci credo...era pagata. Pomeriggio? Per conto nostro. Sera? Per conto nostro. I professori? Per conto loro. Verso le 23 andavamo in discoteca...ce ne sono un sacco a Praga...Sì, sì, ogni notte. Rientro? Verso le 5...a volte le 6. L'indomani ci alzavamo un po' stressati...Le visite guidate? Mah, non è che fosse sempre un obbligo...una volta c'era da scegliere: o quella "palla" del Cimitero Ebraico, o un giro libero per la città, con la guida. La guida ci ha mollato presto, e allora siamo andati al Museo del sesso. Sapesse professore! Un filmino porno...del 1926...(risate). Poi ci sono i Pub, vedesse...la birra è buona e costa poco...Si è ubriacato persino XY (risate)...era talmente "fatto" che, mentre ballava, non faceva altro che mettere le mani sul sedere delle ragazze. Erano locali "speciali"...al primo piano si beveva e si ballava; al secondo si vedeva lo streep (delle bambole professore!). Indovini al terzo...(risate). Bastavano 2000 corone, cioè circa 40 euro...no, no, non ci è andato nessuno, sta scherzando!?. Per strada ci seguivano dei negri...in continuazione, un tormento...Cosa volevano? Offrivano sesso, donne...prestazioni...prezzi modici (risate). Il viaggio?...bah, tutto compreso 360 euri...Si, abbiamo visto piazza San Venceslao dove quel tizio si è dato fuoco...e il Palazzo Reale...bello...Una sera, prima della discoteca, siamo usciti un po' coi professori: siamo entrati in un locale dove facevano la lap dance...Don XY se ne è uscito di corsa...era scandalizzato, sembrava avesse visto il diavolo! (risate)...Non ho mai fatto un viaggio di istruzione e penso proprio che continuerò a privarmene. Al loro, ripetuto, "Ci porta in gita?", ho sempre risposto, "Mi spiace ragazzi, voglio morire illibato". Uomo di corte vedute. In compenso ho, sul tema, un discreto repertorio di aneddoti: si va dalla bancarella di souvenirs depredata ad Assisi da gentili cavallette, al water divelto da baldi giovani e poi lanciato nel cortile di un alberghetto in provincia di Cagliari; dall'ovazione sul pullman, alla notizia che il Palazzo dei Papi, ad Avignone, è chiuso per lavori ("ce la siamo scampata bella!"), al sacerdote accompagnatore che, a Barcellona, rientrando in Hotel, trova in un corridoio un'alunna abbracciata ad una compagna; per un attimo teme sia lesbismo; e subito si calma scoprendo che la compagna è "solo" un cameriere dalla lunga chioma. Lussuria sì; ma secondo natura. C'è, poi, la storia di un disperato Prof che, a notte fonda, per ricacciare l'orda nelle stanze, deve menare colpi di asciugamano bagnato. E l'elenco potrebbe continuare. Naturalmente, qualche serio collega potrebbe qui adontarsi, e osservare che non sta bene generalizzare; e che lui, di viaggi, ne ha fatti e visto fare di ben diversi. E io non mancherò di credergli sulla parola; solo che, come sempre, è tutta questione di denominatore. Seri? Quanti sul totale di quelli effettuati? Ecco un bel programma di ricerca per i ministeriali indagatori della "qualità". E per i Teoreti che ogni quattro anni provano a ristuccare il mondo; e ai quali non passa mai per la testa l'unica cosa importante da capire: e cioè che nella Scuola Italiana, tra viaggi siffatti e mille consimili scempiaggini, praticamente non si studia più. Verità luminosamente presente, invece, a quella accompagnatrice che, in piena sala professori, con tono deliziosamente svagato, ebbe pure il coraggio di dire, "Mi sento già in vacanza...sarà per il viaggio di istruzione...".
               
              
                                                                  Gigi Monello

mercoledì 1 marzo 2023

Caso Cospito: un confronto facile, facile


 

Procurarsi gli attrezzi per la bisogna non fu cosa difficile: due pentole, un tubo di ferro e un bloccasterzo. La coppia di cinquantenni benestanti fu tramortita di sera, al rientro a casa, e poi finita con ripetuti colpi sulla testa. Non fu cosa veloce: quasi un’ora di agonia. Era il 1991; i responsabili furono trovati in poco tempo: quattro ragazzi della provincia veronese; uno di loro, il più grande (20 anni), era il figlio dei martirizzati. Un dilettante: la simulazione del furto apparve subito goffa, e lui stranamente freddo. Avevano una colpa, i suoi genitori; imperdonabile: sarebbero verosimilmente campati ancora a lungo; impossibile aspettare tanto per ereditare. Il figlio - l'ideatore - prese trent’anni. Ne fece 22 e, nel 2013, uscì. Cinquantenne, oggi vive tranquillo, lavora, si diverte il giusto (supponiamo); forse frequenta ancora discoteche. Ha detto di essersi pentito. Può essere. Tuttavia riesce difficile giudicarlo una “bella persona”.

Veniamo ad anni più vicini e consideriamo un secondo “dilettante” del crimine, quasi coetaneo del primo. Storia assai diversa: politicamente imbevuto di ideologia anarco-insurrezionalista, si è da tempo convinto che, per educare le masse, occorra colpire i simboli dello Stato; nemici a caso; non importa chi siano; bersagli a prescindere; basta che rappresentino il male. Nel 2006 piazza due bombe davanti alla caserma dei Carabinieri di Fossano (Cuneo) e alla contigua Scuola Allievi. Gli ordigni, programmati per esplodere a 25’ l’uno dall’altro (vecchio trucco), lo fanno; ma esperienza dei “destinatari” e fortuna, vogliono che nessuno ne riporti un graffio. Tempi mal calcolati? Forse. Nel 2012 dopo aver gambizzato a Genova un dirigente Ansaldo, viene preso e da allora sta in carcere. Per coerenza etico-politica, non si è mai pentito. Anche in lui non riesce facile vedere una “bella persona”. Con una differenza: le intenzioni del primo soggetto sono transitate nel mondo dei fatti; quelle del secondo, no. Chi lo difende, dice, “Non ha mai ammazzato nessuno”. Meglio sarebbe dire, “Non gli è mai riuscito…”. Ma qualunque cosa si voglia pensare, un fatto resta netto e solido: non ha morti ammazzati di cui rispondere.

Confrontiamo i diversi destini: al primo, 22 anni di galera; al secondo ergastolo ostativo (41 bis); una quasi morte. La Giustizia penale ha da essere retributiva, cioè aritmetica, cioè proporzionale. Se qualcuno ci spiegasse l’arcano.

                                                                             gigi monello

mercoledì 28 dicembre 2022

Manzoni: l'impegno c'è ma non si vede




Insondabili congiunture internettiane hanno rimesso in circolazione l'argomento con cui Umberto Galimberti auspicava, due anni fa, la scomparsa dei Promessi Sposi dalla nostra scuola: un'opera che, facendo della Provvidenza l'artefice della storia, manda ai giovani un messaggio di disimpegno. Da quanto si desume dalle immagini, l'esternazione viene fatta proprio davanti ad un uditorio di giovani, che reagisce con un divertito mormorio.

Questo, dei Promessi Sposi come romanzo della Provvidenza divina, è uno dei più triti luoghi comuni che periodicamente dalle aule scolastiche passa sui media. Perché nel romanzo – a leggerlo bene – la Provvidenza è tanto presente nelle parole, quanto assente (o equivoca) nei fatti.

Prendiamo uno dei casi più famosi: il vecchio servitore in casa di Don Rodrigo, che per scrupolo di coscienza, informa Padre Cristoforo delle losche mene del suo padrone (P.S., cap. VI ).
 Dopo il burrascoso colloquio con il prepotente e l'incontro col servitore, così il frate rincuora i suoi protetti, Nondimeno, confidenza in Dio! … lascia fare a Lui, Renzo; e sappi… sappiate tutti ch'io ho già in mano un filo, per aiutarvi. Per ora non posso dire di più (P.S., cap. VII). 
Nella realtà dei fatti quel filo si perde e la scelleratezza fallisce non perché una mano invisibile la fa fallire; ma perché il Caso vuole che due progetti umani (il rapimento di Lucia e il matrimonio a sorpresa) “si imbroglino” nel tempo: dimodoché mentre i bravi tentano di sorprendere Lucia in casa sua, la medesima è, a sua volta, impegnata a sorprendere Don Abbondio in casa propria. Quando, di ritorno a casa (con un palmo di naso), la comitiva dei buoni incontra Menico (l'inviato della Provvidenza), i giochi sono già belli che fatti, visto che gli sgherri, sentite le campane (che non suonano per loro), stanno prestamente tornando (con un palmo di naso) alla loro tana.

E adesso chiediamoci: che sarebbe successo senza Menico? Possiamo immaginarlo: i nostri umili eroi sarebbero rientrati in casa (senza pericolo alcuno di brutti inciampi, visto che i bravi ne uscivano in direzione opposta); avrebbero realizzato che era l'unica del paese ad essere stata manomessa e ne avrebbero tratto la sola logica inferenza possibile: volevano prendere Lucia, che per pura combinazione (miracolo?) è salva. A questo punto, il buon Padre Cristoforo, non appena informato, avrebbe subito dato, pari pari, lo stesso ordine impartito a mezzo Menico; far subito scomparire la minacciata. Ruolo della Provvidenza? Praticamente zero. A meno che a qualcuno non venga voglia di obiettare che, senza diretto avviso, i nostri contadini sarebbero rimasti nel dubbio di un furto. La saggezza probabilistica dei villani di Lombardia, non doveva essere, nell'ottocento, inferiore alla nostra.

Vediamo un'altra famosa prova di Provvidenza all'opera: la pessima fine di Don Rodrigo e del Griso; spacciati dalla Peste. Sfortunatamente, però, muoiono di peste anche l'ottimo padre Cristoforo e l'innocente Cecilia, la bambina che mani pietose di madre depongono sul carro dei monatti. Nei fatti, la Peste del Manzoni colpisce a casaccio: è spietatamente a-finalistica.

Ma il Provvidenzialista non demorde e, a questo punto, tira fuori il suo asso dalla manica: la conversione dell'Innominato e la seguente salvezza di Lucia. Chi, se non Dio, ha toccato il cuore del malvagio? C'è però un dettaglio: a Manzoni servono la bellezza di circa 20 pagine di romanzo per descrivere quella crisi; e il lavorio su spinte, controspinte e gradazioni nella psicologia del personaggio, è talmente preciso, penetrante, positivista, da lasciare nel sospetto che il noto furfante al cubo la conversione se la possa anche essere faticata da solo (P.S., capp. XX-XXI). Succede, qui, qualcosa di analogo a quanto accade con i discorsi di certi biologi impegnati a conciliare evoluzionismo ed esistenza di Dio: il collo della giraffa africana o il becco di un fringuello sudamericano? Stavano da sempre nella mente di Dio. Si capisce. Ma, per arrivarci, l'Onnipotente ha lasciato che agissero cause puramente naturali (la selezione); poteva mica occuparsi di ogni minimo dettaglio.

Cancellare i Promessi Sposi dalle scuole? La penso esattamente all'incontrario: quel libro ha meriti educativi indubbi; e sono meriti laici. E se – per dirne un'altra – frugo nella mia memoria, non trovo una esperienza formativa più capace di far provare ripugnanza verso i mascalzoni, delle pagine in cui si descrive l'impasto di frustrazione e prepotenza di cui è fatto Don Rodrigo. Togliere i Promessi Sposi dalle mani degli adolescenti? Sbagliatissimo. Che lo leggano; tutto e bene (c'è pure tanto italiano e tanta buona logica da imparare). Magari passando, dopo, a Kerouac.



Gigi Monello